Un giorno lento (puntata 8)

IL FERRO NEL BRACCIO

Prima del ritiro, ogni sera, avevo la consuetudine di sporgermi oltre il recinto, salendo sopra un cumulo di paglia, per scorgere il panorama in penombra ma anche per assicurarmi che non ci fossero intrusi nei paraggi.

Le poche cose che si distinguevano, distendendo lo sguardo verso il deserto, erano alcuni fuochi in lontananza, probabilmente dei villaggi di nativi americani, le ombre dei cactus e qualche occhio animale che rifletteva le ultime lampade ancora accese.

Rimanevo, spesso, qualche minuto a contemplare la luce della luna, il fumo dei comignoli e il silenzio, spezzato solo da qualche folata di vento che, infrangendosi contro il grande recinto, creava degli scricchiolii del legno.

Gli abitanti del villaggio iniziavano a chiudere le imposte e le porte, spegnevano le luci e si apprestavano a coricarsi.

Il nitrito, spontaneo, di qualche cavallo, gli ululati in lontananza dei coyote e l’abbaio di qualche cane, a quel punto, erano gli unici suoni udibili in tutto il deserto.

Tutti, nessuno escluso, avrebbero, nel giro di poco, dormito.

Tutti tranne me, che aspettavo ancora un po’ rimirando l’orizzonte ormai buio e il cielo stellato, e Dena.

Dena era l’ultima a chiudere bottega.

La sua locanda rimaneva aperta finché l’ultimo dei resistenti da alcool, rimaneva seduto al suo bancone.

E io, prima di rincasare, passavo davanti le ante del suo locale, tipiche da saloon, per assicurarmi che tutto fosse in ordine.

Non era mio compito, ma avevo premura nel farlo.

Passando, buttavo un occhio al di là dei vetri delle finestre, vedevo la sua sagoma muoversi tra un tavolo e un altro, intenta nel rassettare per il giorno dopo e continuavo la mia lenta camminata verso casa.

Lei non si era mai accorta di questo.

Lo sapevo con certezza perché, quando capitava che finiva di pulire qualche secondo prima del mio arrivo, la vedevo tenere in mano saldamente la pistola, pronta a sparare se qualcuno avesse voluto darle fastidio.

Se avesse saputo che ero lì ad assicurarmi del suo buon stato di salute, forse sarebbe stata più tranquilla…

Dena era stata una trovatella. Era ancora in fasce quando fu trovata sulle scale della chiesa, dal parroco. Era avvolta in un tessuto bianco, senza alcuna scritta, accompagnata soltanto da un piccolo bastone con delle incisioni misteriose intagliate nel legno.

Seppero del suo nome da un pellerossa, che pochi giorni dopo il ritrovamento della piccola, lasciò un biglietto a un compaesano con su il disegno di un fiume.

Fecero, così, delle ricerche e si capì che il fiume disegnato poteva essere il Mississippi e che la piccola poteva provenire da uno dei villaggi locali, dislocati nella vallata adiacente al fiume. Dena significherebbe, infatti, “colei che viene dalla vallata”.

Aveva la pelle perennemente abbronzata, tendente al dorato. Gli occhi color caramello, tagliati e allungati, i capelli scuri e molto lunghi, spesso legati tra loro come a formare una grande treccia e tenuti fermi da un bastoncino. Il naso dritto, la bocca carnosa ma armoniosa, gli zigomi alti. L’altezza era normale per essere una ragazza, ma aveva delle gambe lunghe, quasi sproporzionate rispetto il resto del corpo.

Portava sempre un paio di jeans e una camicia a maniche lunghe, chiara. E la cintura. La cintura nella quale teneva salda la pistola, come fosse un’appendice del suo splendido corpo. Come se, impugnandola, il suo braccio d’un tratto diventasse di ferro.

di Fabio Valerio

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