KIMAMA
Era bella come non lo era mai stata nessuna donna, in quel villaggio.
Le linee sinuose seguivano le lunghe e scoscese pareti addominali, che a un tratto scolpivano i fianchi, allargandosi, per gettarsi, poi, costeggiando le chilometriche gambe sempre nude, toccando il terreno all’altezza dei talloni, perennemente scalzi. Come a voler fronteggiare con caparbia ogni intemperia, ogni clima, ogni sasso. Risalendo, le sue braccia toniche ma eleganti e femminili facevano da trampolino verso le spalle magre, premessa per un collo lungo e decisamente sensuale.
Era forte, impavida, coraggiosa e solare.
I lunghi capelli neri erano legati all’altezza della base del collo, su loro stessi, come in un grande nodo da ancora, per poi essere raccolti con il primo bastoncino trovato in giro, sulla nuca, per non impedire i movimenti.
Adorava andare a cavallo, tirare con l’arco, costruire cestini e copricapi con foglie e bastoncini trovati in giro, ma la cosa che le piaceva di più era contemplare il fuoco.
L’abbandono dello sguardo sulla fiamma, domata ma allo stesso tempo imprevedibile, la teneva concentrata per ore.
Era maestra di quella disciplina che gli orientali chiamerebbero meditazione. Aveva ereditato gli insegnamenti dal padre e lui dai suoi genitori. Erano generazioni e generazioni che si tramandavano queste conoscenze, che purtroppo furono interrotte dall’inesorabile volere del destino.
Il suo nome era Kimama, la prima femmina capo del suo villaggio, l’emblema della bellezza nativo-americana, la principessa dimenticata.
Quando conobbe quello che diventò, poi, suo amante, lui era già sposato, con rito cristiano, con una donna del villaggio dell’uomo.
Si conobbero per caso, quando entrambe si ritrovarono a cacciare la stessa preda, nel medesimo territorio, una sorta di terra di nessuno tra i villaggi.
Lui, fedelmente riconoscente alla moglie, promise che, nel caso fosse successo qualcosa al suo matrimonio, sarebbe andato a cercare la bella, anche in capo al mondo. Lei, di contro, non trovò mai più posto per nessun altro nel suo cuore, aspettando oltre dieci anni.
Successe, infatti dopo molti anni, che l’uomo, già padre di un bravo e rispettoso ragazzo, decise di andarla a cercare, in seguito alla scomparsa prematura della moglie.
Girò diversi villaggi, macinò miglia su miglia, chilometri su chilometri, parlando con capi tribù e bussando alle porte di qualsiasi alloggio incontrasse lungo la strada. Non demorse mai, neppure mentalmente per pochi secondi. Era deciso a ritrovare quella bella creatura a ogni costo.
Finché un giorno non la incontrò, proprio nel suo territorio di origine, a pochi passi dalla sua abitazione, intenta nella caccia.
“Kimama!” esclamò il grande capo.
Bastò questo per far innamorare nuovamente la ragazza.
Purtroppo, come sappiamo, al parto della piccola figliola, la bella capo indios morì, lasciandola sola al suo destino. La piccola Dena che, purtroppo il padre, il grande capo, non volle con sé.
Non aveva mai sostituito, ufficialmente, la figura della prima moglie e non aveva mai, davanti al figlio Giuseppe, esternato l’amore per un’altra donna.
I due, capi di villaggi differenti, mantennero distaccato il loro amore da tutto il resto, per non sconvolgere le usanze e le tradizioni dei rispettivi popoli. Misero, davanti al proprio amore, il senso del dovere, rispetto la loro posizione sociale all’interno del gruppo.
Per questo il padre decise di far abbandonare Dena lungo il fiume. Anche se poi ripensò a quanto sarebbe stato doloroso il saperla morta di stenti, così mandò il primogenito a recuperarla, senza però spiegargli nulla, senza fargli capire che si stesse trattando della sorella, appena nata.
Ma ormai il destino della piccola si era compiuto.
Come al solito, le scelte che non vengono dal cuore, finiscono per creare serie di avvenimenti sempre più disastrosi, come in un effetto domino devastante.
Di Fabio Valerio
@erofaalbivio