IL SUONO DEL MARE
Mi piaceva molto il suono che produceva il mare, quando agitato, si scontrava lungo
gli scogli. E l’odore del sale ti entrava nelle narici arrivando direttamente al cervello,
dandoti le sensazioni di libertà, grandezza e impotenza.
Lo spumeggiare delle onde che, all’infrangere con la costa, saliva anche per metri,
bagnando il costone e l’occhio di chi osserva, guardando verso il basso, aveva la
sensazione di essere travolto da cotanta foga.
Mi piaceva anche il vociare dei lavoratori, giù al porto. Quando si chiamavano tra loro
e strillavano, urlando nomi e nomignoli, tra l’ondeggiare delle barche ormeggiate e lo
stridio dei gabbiani, in cerca di qualche rimasuglio dell’abbondante pesca.
Adoravo stare su quella cima, dove si poteva osservare l’orizzonte senza ostacoli e
che, in alcune giornate velate, dava la sensazione di continuità tra mare e cielo.
Ma quello che mi piaceva di più era il suono della tua voce, quando avvicinandoti
silenziosamente alle mie spalle, mi sussurravi all’orecchio che era ora di scendere, di
tornare a casa… Era ora di baciarti e di sentire il sapore delle tue labbra, e il tuo affetto
mi inondava i sensi.
In realtà mi piaceva anche il deserto. Il silenzio, il vento che alzava la sabbia, il sole
cocente, a picco sui cactus e sulle pietre infuocate. Ogni sibilo, lì, era potenzialmente
un pericolo, e questo lo rendeva affascinante. Mi piaceva passeggiare e far tintinnare
la cinghia sulla pistola, lo scricchiolio della pelle degli stivali secchi, il cigolio delle
insegne delle botteghe e l’ululato del coyote, al tramonto.
Mi piaceva osservare in lontananza i fumi, che si alzavano verso il cielo, degli
accampamenti indios nelle vicinanze, la sensazione della pelle bruciare di giorno e
rabbrividire di notte, il suono dei campanelli sui calessi, l’abbaio dei cani randagi in
cerca di un residuo di pasto, da un qualunque umano.
Era una sensazione liberatoria abbandonarsi su una roccia, con la schiena poggiata,
fuori il grande recinto e osservare il cielo stellato. Il più bel cielo visibile al mondo,
credo. Non una nuvola, mai. Sempre stelle, pianeti, quel bianco lattiginoso della via
lattea, il movimento accelerato di qualche meteora che prendeva fuoco impattando
l’atmosfera…
Ma quello che mi piaceva di più era il suono dei boccali tintinnare tra loro, quando li
toglievi dal bancone e, con fare frettoloso, li lavavi sotto quella poca acqua a
disposizione; il tuo sguardo impegnato e deciso, dolce e languido ma sicuro e
concreto.
Ma forse mi piaceva ogni posto, dove c’eri tu. Non eri esteticamente uguale, ma
l’animo non poteva che essere lo stesso, ci avrei giurato. E se solo avessi avuto la
possibilità di ricordarlo, forse non avrei fatto scorrere il tempo inutilmente, la seconda
volta. O forse era proprio così che doveva andare.
Il destino doveva compiersi, come disse il tuo consanguineo che ti consegnò al
villaggio.
Lui si prese cura di te senza che neanche sapesse molto della tua storia. Sapeva solo
che doveva andare così e che avrebbe dovuto fare di tutto perché non ci fossero
alterazioni, rispetto l’andamento naturale delle cose. Ti fece allattare dalla moglie, ti
lavò, ti fece riprendere le forze, facendoti dormire al caldo del suo corpo, finché non
fosti pronta a essere portata dal parroco.
Con amore e rispetto ti lasciò sulle scale della chiesa, avendo certezza che qualcuno ti
trovasse in fretta, cosa che effettivamente successe.
Ma quando seppe che il tuo nome, sarebbe stato quello rappresentato dai simboli
incisi sul bastone di Giuseppe, allora tornò per far sì che fosse cambiato, per non
permettere che accadesse di nuovo che venissi abbandonata, che qualcuno ti
pensasse portatrice di disgrazia, come già accadde quando ti lasciarono lungo il
fiume.
Purtroppo sappiamo bene che le voci corrono veloci e quale è stato, poi, il seguito.
Ma il destino se deve compiersi, non lo si può fermare. Ed ecco perché, io e te, ci
siamo incontrati, di nuovo.