IL POTERE DEL PIOMBO
L’avevo sempre appresso.
Mentre dormivo, quando passeggiavo, al bancone della locanda o a cavallo. Quando mi fermavo a guardare i fumi degli indios in lontananza e anche in chiesa.
Sì, anche in chiesa; mi faceva sentire al sicuro.
La frequentavo poco, la chiesa. Perché c’era qualcosa, lì, che non mi faceva stare tranquillo. Salvo i casi in cui mi sentivo, già, più agitato di quanto quel luogo non mi avrebbe ulteriormente fatto sentire.
Come quando rapirono il bambino.
In un momento di poca lucidità entrai in chiesa per chiedere aiuto alle forze superiori. In realtà qualcosa mi frenava nell’andare fisicamente a cercare il figlio di Kate e questo mi faceva sentire in colpa. Eppure trovai la forza di dirigermi verso l’altare e osservare il grande crocifisso appeso proprio al centro, in alto, visibile da ogni parte della chiesa e persino dall’inizio della navata.
Appena varcata la soglia del grande portone, questa scultura di legno imponente ti redarguiva, richiamandoti all’ordine, qualsiasi cosa tu avessi fatto.
Ma con il piombo in tasca mi sentivo, in ogni caso, dalla parte giusta.
Se ho mai sparato a qualcuno? Ovviamente no. Non avrei potuto, non c’era nessuno, veramente, lì e in ogni caso non ne avrei avuto la forza.
Neanche nella vita vera, quel tratto di esistenza prima dell’esperienza nel selvaggio West, mi sarei mai sognato di far del male a qualcuno, ma chissà perché, lì, sentivo il bisogno di portare un’arma sempre al seguito.
La lucidavo, la osservavo, la toccavo spesso. Sentire il freddo del ferro al lato della cintura e metterla in mostra mi dava grande soddisfazione e serenità. Un po’ come se mi sentissi più attraente per le donne e maggiormente da temere per gli uomini. Un po’ come un pavone che mostra orgoglioso la sua coda pennuta e colorata.
Quel giorno, però, in chiesa non ci badai troppo. Chiesi fermamente l’attenzione al signore raffigurato sulla scultura, mi inginocchiai al suo cospetto e pensai che forse, forse, sarebbe stato ingiusto se fosse successo qualcosa al bambino. Che forse, forse, avrei potuto fare qualcosa per aiutare ma che probabilmente sarebbe stato meglio, per un motivo ancora poco chiaro, attendere che tutto fosse andato secondo quanto deciso dai piani alti.
Il signore crocifisso non diede alcun segnale. Il suo sguardo sofferente ma deciso, caparbio ma al tempo stesso amabile come lo sguardo di un fanciullo, restava fermo a fissare l’aria posta tra il mio capo e una delle colonne della navata. Non era più tempo per pregare, lo sentivo nel profondo. Lui non era più lì. Era venuto il tempo di fare qualche passo oltre il fare, il chiedere, il volere….
Era giunto il momento di lasciar fare.
Per questo, forse, non agii. Sentii che era giusto così, che quell’esperienza, per il piccolo, era una parte essenziale del suo stare qui e del vivere questa situazione alquanto paranormale.
Di quello che successe al pargolo, durante quelle lunghe ore, mi è stato dato di saperlo solo del tempo dopo aver consapevolizzato di essere un “non essere”.
Perché tutti, nessuno escluso, eravamo costretti a vivere quella situazione; il mio non intervenire, quello di Dena e del fratello del piccolo, l’angoscia della madre, l’ansia dei vicini… Tutti, in cuor loro, erano consapevolmente poco coscienti del dover, per forza di cose, vivere quell’esperienza.
Sì, caro signore inchiodato alla croce, tutti eravamo costretti e tu lo sapevi da tempo immemore.
Per questo portavo la rivoltella anche in chiesa. Nessun amico, in terra straniera.
di Fabio Valerio
@erofaalbivio