IL MULINO
Il suo sguardo, i legacci, il pelo fitto e trasandato e le zampe tremolanti che facevano sprofondare nel fango gli zoccoli, mi riempivano di tristezza.
Era legato tutto il giorno alla macina di quel vecchio mulino cadente, per il solo vezzo dell’uomo, incapace di sopravvivere senza farina.
Eppure quell’asino, proprio come me che lo osservavo, come il cavallo che galoppava libero nella steppa, come il coyote e i gatti randagi, aveva un’anima. Aveva un’intelligenza, aveva una vita.
Una vita passata a girare intorno, senza aver conosciuto il mondo, senza mai essersi riposato, senza aver avuto rapporti di qualsiasi tipo, se non con il tizio che si occupava di tirar via il letame, di tanto in tanto.
Capitava che passavo di lì e mi soffermavo a osservarlo per qualche minuto. Gli grattavo un pò la testa e lui, per riconoscenza, si fermava e sbuffava dal naso, girava verso l’esterno l’occhio per osservarmi un secondo, e poi ripartiva imperterrito, lento ma continuo, inarrestabile.
Su, il mulino, faceva ruotare un’elica esterna, collegata alla macina tramite pali e ingranaggi rudimentali che, con il vento, dava un po’ di aiuto al ciuccio e ne alleviava la fatica. Fortunato quel somaro, nei giorni di vento persistente.
Quando si alzava il vento da sud, conveniva rimanere in casa. La sabbia rossiccia del deserto si alzava, così velocemente, a causa delle impetuose raffiche di vento, che si poteva sentire il dolore sulle gambe colpite dai granelli, anche indossando i pantaloni.
Quel giorno, invece, anche il vento era lento.
La sensazione era come se le ore, i minuti, i secondi, girassero negli orologi a ritmo decisamente più rallentato, quel giorno lì.
E, tra il cerchio di sassi e la sparizione del bambino, tutte le altre attività quotidiane svolte normalmente, sarebbero potute essere eseguite in un quarto della giornata, quel giorno lì.
L’avrei ricordato per sempre, quel giorno lì.
Il giorno in cui capii per quale motivo, uscire da questo villaggio, non ci era possibile.
Durante il quale capii per quale motivo, i ricordi del passato, sembravano lontani e confusi.
Perché in cuor mio sapevo che, prima o poi, sarei tornato a casa, ma della quale non avevo ricordi nitidi.
Il giorno in cui capii che noi tutti eravamo solo delle emanazioni della nostra intelligenza energetica.
Non rimaneva nulla di materiale, una volta dissolti, una volta arrivata la sera.
Nulla di noi era presente, se osservati da occhi esterni.
Una strana legge ci teneva imprigionati in questo villaggio fantasma.
Le case erano abbandonate, senza finestre, senza porte, spesso scoperchiate. Gli arredamenti erano abbandonati da tempo e gli animali, tranne quelli che consideravamo domestici, erano gli unici proprietari di quello che rimaneva, in questo posto sperduto nel deserto.
Le cataste di materiale, il mulino, la locanda di Dena… Tutto vecchio, rotto, dimenticato dal resto del mondo.
Noi stessi eravamo stati dimenticati dal resto del mondo.
Eravamo effimeri, inconsistenti, inutili; o semplicemente non eravamo.
Mere presenze impermanenti. Una situazione impensabile al raziocinio, non accettabile.
Tutti i rapporti stabiliti tra di noi nel tempo, le chiacchiere, i mestieri, le preoccupazioni, erano stati tutti inutili.
Eravamo già trapassati da tempo eppure, ancora, così legati alla materialità che non ci eravamo accorti che avremmo potuto, finalmente, godere del ritorno a casa.
Anche il mio mutismo, non era altro che il risultato della mia vita fisica passata; e, visto ora il risultato, potevo valutare che questa modalità nel proteggermi, non era stata affatto una buona scelta.
Solo un dubbio rimaneva però, ancora, ronzante nella mia mente vacua: Dena me l’ero inventata o anche lei era rimasta incastrata, come me, nella gabbia d’oro?