“Per sua natura il borghese è una creatura di debole slancio vitale, paurosa, desiderosa di evitare rinunce, facile da governare. Perciò ha sostituito al potere la maggioranza, alla violenza la legge, alla responsabilità la votazione.” Si tratta di una estrapolazione dal romanzo “Il lupo della steppa” dello scrittore svizzero-tedesco Hermann Hesse. La scelta è assolutamente arbitraria, il passo, pertanto, non può né presume di poter essere una sintesi del messaggio hessiano espresso nel suo lavoro del 1927, nemmeno suppone di divenire una verità assoluta, non lo pretendeva l’autore e, rispettandone l’intelligenza, non lo pretendo nemmeno io. Ci basti poterlo utilizzare come occasione per uno sguardo altro con “umoristica arguzia”, in fondo, quanto pubblicato “non è di chi lo scrive ma di chi lo usa” come si può leggere ne “Il postino di Neruda”. In chiusura di preludio e al fine di corroborare quanto sopra affermato, cito, dal medesimo romanzo di Hesse: “Soltanto l’umorismo, la stupenda invenzione di chi si vede troncata la vocazione alle cose più grandi, l’invenzione dei tipi quasi tragici, degli infelici dotati di massima intelligenza, soltanto l’umorismo (la trovata più singolare e geniale di tutta l’umanità) compie l’impossibile, illumina e unisce tutte le zone della natura umana alle irradiazioni dei suoi prismi. Vivere nel mondo come se non fosse il mondo, rispettare la legge e stare tuttavia al di fuori della legge, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se non fosse in rinuncia: tutte queste esigenze di un’alta saggezza di vita si possono realizzare unicamente con l’umorismo.”
La prima caratteristica del borghese è di essere dotato di scarso slancio vitale: come non pensare alla filosofia bergsoniana, come non ricordare i “tiepidi” che Giovanni nell’Apocalisse fa vomitare dalla bocca di un dio schifato da tanta mediocrità. Ma quanti amano “un pochino”, lasciandosi sempre una via di fuga; quanti desiderano ma senza esagerare poiché temono il fallimento delle proprie aspirazioni così da renderle sempre e solo un’ipotesi; quanti si auto-ingannano definendo buona educazione l’incapacità di cancellare, con un virile colpo di spugna, ciò che trovano repellente, quanti si accontentano di ambire ad avere dei “followers” senza minimamente interessarsi di chi e perché ma limitandosi ad una asettica conta del gregge? Sono trascorsi quasi 100 anni dalla prima edizione de “Il lupo della steppa”, poco è cambiato e, se si, in peggio. Il borghese è pauroso, desideroso di evitare rinunce, facile da governare. A me sembra un’istantanea formidabile di oggi scattata un secolo prima. Il popolo ha il potere o deve subirlo? Ma oggi popolo è divenuto un termine pericoloso da utilizzare, appena pronunciato ecco che ti senti osservato con sospetto: quello deve essere un populista, magari nazionalista conservatore reazionario e … probabilmente gli puzzano i piedi. Mi consolo con un pensiero di Nietzsche: “Creatori erano coloro che crearono i popoli e sospesero sopra di essi una fede e un amore: e così servivano la vita” anche se so bene che, beata ignoranza, c’è chi lo legge come teorico dell’autoritarismo. Proseguiamo ancora con Hesse: “Perciò ha sostituito al potere la maggioranza, alla violenza la legge, alla responsabilità la votazione.” Ma non è questa l’immagine perfetta di ciò che oggi chiamiamo democrazia? La forma di governo considerata universalmente la panacea di ogni male?
Siamo sicuri che la volontà della maggioranza sia ciò che meglio rispetta la grandezza dell’uomo? Non corriamo il rischio di abdicare al libero pensiero per accodarci mansueti ed inetti al de-pensiero dominante? Siamo certi che la superiorità determinata dal numero rispecchi il valore del pensiero stesso? Non possiamo, permettetemi di insinuare il sospetto, supporre che il numero sia così ingente perché, potrei di nuovo citare Giovanni, il vomito di Dio è composto da quegli innumerevoli che non hanno saputo essere come i pochi, caldi o freddi che fossero? Siamo certi che la violenza del potere del “risentimento”, denunciato dal grande Federico, sia bella e santa? Non può essere che avesse ragione Trasimaco di Calcedonia, quando definiva la legge “una maschera che nasconde gli interessi dei potenti”? Partecipare al rito sacrale della votazione come tutela dell’autodeterminazione dei popoli è davvero la garanzia del diritto e dell’espressione della volontà dell’elettore? Non è un po’ come dire: ho compiuto il mio dovere di cittadino, poi “loro”, lo so bene, decideranno quello che vorranno ed io, non potendo intervenire in alcun modo, attenderò paziente le più o meno prossime votazioni per ritagliarmi un momento di possibilità di scelta, di assunzione di responsabilità. Una strisciante eutanasia politica?
L’interrogativo appena espresso trova una qualche forma di sviluppo in un altro passo di Hesse contenuto ne “Il lupo della steppa” quando il protagonista Harry Haller (non a caso le medesime iniziali dell’autore) legge, se non ricordo male, nella “Dissertazione”: “Tu, Harry, sei stato un artista, un pensatore, un uomo pieno di gioia e di fede, sempre alla ricerca delle cose grandi ed eterne, mai contento di quelle piccole e graziose. Ma quanto più la vita ti ha svegliato e portato verso te stesso, tanto maggiore si è fatta la tua miseria, tanto più sei affondato nell’angoscia e nel dolore… Tu avevi in cuore una visione della vita, una fede, un postulato, eri pronto ad agire, a soffrire, a sacrificarti, e poi ti sei accorto a poco a poco che il mondo non chiedeva affatto gesta e sacrifici e cose simili, che la vita non è un poema sublime con personaggi eroici, bensì una buona stanza borghese dove ci si accontenta di mangiare e bere, di prendere il caffè e di fare la calza. E chi pretende quelle altre cose, le cose belle ed eroiche, il rispetto dei grandi poeti o la venerazione dei santi, è uno sciocco, un Don Chisciotte.” Come può sopravvivere un lupo della steppa in tanta malinconica resa? La risposta di Hesse è: “Vivere nel mondo come se non fosse il mondo, rispettare la legge e stare tuttavia al di fuori della legge, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se non fosse in rinuncia: tutte queste esigenze di un’alta saggezza di vita si possono realizzare unicamente con l’umorismo.” Credo di non aver mai incontrato una celebrazione dell’umorismo più tragica.
Inevitabilmente, al cospetto del tragico, non possiamo che ritornare al pensiero di Nietzsche quando in “Del nuovo idolo”, dopo aver schernito i “superflui”, quelli per i quali è stato creato lo Stato; dopo averli descritti come “scimmie maniache” che si azzuffano per arrampicarsi sul trono ed ottenere ciò che bramano, il potere; dopo aver precisato che chi desidera il potere è perché non lo ha ed è, pertanto, impotente; dopo averne denunciato il fetido olezzo; infine interroga i lettori: ”Fratelli miei, volete dunque soffocare nell’alito dei vostri musi e delle loro voglie?”. La visione tragica di Hesse diviene, nell’opera del suo grande riferimento filosofico, Nietzsche appunto, una radiosa luce di speranza e di fede nell’umanità, “Libera è ancora per le grandi anime una libera vita. In verità, chi poco possiede, tanto meno è posseduto”. Non credo che Hesse nutrisse particolari speranze per il futuro dell’uomo, non dimentichiamo che scrive nel 1927, fu facile profeta della tragedia nazista e della seconda guerra mondiale, ma in chiusura mi piace sottolineare l’aspetto troppo trascurato della filosofia nietzscheana, il credo nella possibilità dell’ubermensch, il superamento dell’uomo borghese, l’elemento positivo nella sua visione tragica quando chiude indicando laggiù “là, guardate, fratelli miei! Non li vedete l’arcobaleno ed i ponti dell’oltre-uomo?”
a cura di Ferruccio Masci