“I nomi collettivi servono a fare confusione. Popolo, pubblico … Un bel giorno ti accorgi che siamo noi; invece credevi che fossero gli altri” pensiero e parole di Ennio Flaiano, probabilmente poco noto ai più giovani, è stato un protagonista del panorama culturale italiano negli anni 50 e 60 in qualità di scrittore, sceneggiatore e drammaturgo. Amava giocare con il grottesco e il paradosso e la citazione di apertura ne è un esempio che ci consente di dare inizio a una riflessione sul concetto di pubblico nello specifico caso del “Gioco del Calamaro”. Forse in questa forma l’argomento risulta poco chiaro, ma se riportiamo alla sua origine quanto ho tradotto ecco che “Squid game” può risultare più famigliare. Si tratta di una serie televisiva sudcoreana che negli ultimi mesi del 2021 ha disintegrato tutti i record di ascolto a livello planetario. In estrema sintesi narra di una sorta di gioco a eliminazione con partecipazione volontaria che mette in premio una cifra enorme ma che comporta la soppressione di chi viene sconfitto nel corso della competizione. Ho sottolineato che divenire protagonisti di un gioco mortale come questo è assolutamente volontario per distinguerlo da quanto descritto da Amélie Nothomb nel suo romanzo Acido solforico del 2005, anche in quel caso una farsa mortale televisiva nella quale, però, i concorrenti venivano raccolti obtorto collo dalle piazze di Parigi per essere poi rinchiusi in campi di sterminio dai tratti nazisti nei ruoli di guardie o prigionieri.
Numerosi critici televisivi, ma anche psicologi, sociologi e filosofi, si sono occupati del fenomeno, credo che gli elementi costitutivi del successo della serie siano stati perfettamente individuati da molteplici prospettive. Provo a sintetizzarli in poche righe: la competizione che accosta conflittualmente Eros e Thanatos però presentata come espressione di giochi infantili; una sorta di morbosa attrazione per l’estremo, che sia dolore o violenza poco importa, che sembra molto diffusa soprattutto tra i giovani; la radice archetipica del gioco che, trasformandosi, dalla spontaneità infantile sopravvive in svariate forme nell’adulto; la cifra enorme offerta al vincitore che risolverebbe ogni suo problema economico; (va precisato che i partecipanti sono tutti espressioni di tragiche situazioni sociali, elemento che in un’economia da capitalismo selvaggio come quella sud coreana induce a giustificare il ricorso ai più terribili ed amorali mezzi per il conseguimento del fine, il film pluripremiato e prodotto nello stesso paese dal titolo Paraside né è l’antesignano concettuale); le dinamiche interpersonali che mettono in risalto, con brevi e feroci pennellate, caratteri e condizioni border line, espressione di immense solitudini che, a tratti, determinano intensi gesti solidali fino alla costituzione di gruppi – gang; un ulteriore e definitivo archetipo: la lotta per la sopravvivenza.
Non penso assolutamente di essere stato esaustivo in questa breve digressione, ma innumerevoli sono i testi, le interviste, gli studi di settore e simili che si sono occupati dell’argomento, ogni lettore potrà con facilità recuperare dell’utile materiale al riguardo; mi interessa piuttosto riflettere sul vero protagonista del successo della serie che non è il vincitore del gioco, nemmeno il vecchio che lo ha ideato e che vi ha addirittura preso parte, oppure lo sceneggiatore o il regista … credo sia evidente che un simile consenso vada ricercato in chi lo ha effettivamente decretato: il pubblico. Tralasciamo l’elemento voieuristico che caratterizza ormai ogni tipologia di spettatore televisivo, il meccanismo dello sbirciare la riservata intimità, o privacy alla maniera anglofila, dal buco della serratura del mega schermo televisivo è ampiamente ufficializzato dall’alta audience di numerosi format più o meno ripetitivi nelle apparenti varianti, vorrei lasciare ai margini anche l’aspetto della “dissonanza cognitiva” cioè il conflittuale quanto coinvolgente accostamento tra le comuni riminiscenze generate dalla messa in scena dei giochi infantili e la tragicità disperata più prossima alle possibilità interpretative dell’adulto; passiamo all’elemento che maggiormente mi ha colpito: la prossimità tra un ruolo apparentemente secondario ed invece imprescindibile che accomuna le guardie all’interno della serie e lo spettatore.
Tutte le guardie indossano una divisa (rossa) ed una maschera le rende assolutamente anonime. Esistono, in verità, differenze fra i “lavoratori” che consistono in disegni bianchi sulla maschera nera, ma questo, pur gerarchizzandoli nei ruoli, li omogenizza ulteriormente. Evidente l’ammiccamento alla classe proletaria che sottostà al ricatto del capitale, i “proprietari” del gioco, anch’essi mascherati ma chiaramente riconoscibili e distinguibili dalle guardie per l’ostentata ricercatezza e particolarità dei loro travestimenti. Ma nemmeno questo è quanto più mi sembra rilevante, l’accenno al conflitto di classe è fin troppo palese, più significativo è il fenomeno di “deindividuazione e deresponsabilizzazione apparente” che accomuna guardie e spettatore. Le prime nascoste e anonimizzate dalle maschere, gli altri dalle mura di casa che, almeno apparentemente, proteggono dall’essere “spiati mentre si spia”. Credo sia perfetta la definizione di “tragedia del noi”, quell’autoinganno diffuso che solleva “io” dalla responsabilità, inghiottito da un noi che si decompone e scompare non appena esaurita la circostanza coagulante. Qualche esempio? Quelli che parlano al plurale quando si riferiscono ad un “nemico comune”, che sia quello con una diversa divisa, o colore di pelle, o provenienza geografica o, molto più banalmente, con i colori di un’altra squadra! Avete presente quelli che vanno allo stadio non per sostenere la propria squadra ma per insultare l’altra ed i tifosi al seguito? I perché poi si trovano, intanto odiamo! Già, amare è molto più complesso, ti rende protagonista, ci devi mettere la faccia, non puoi chiamarti “noi”, devi essere felice di dichiararti “io”. Lo so, c’è anche chi riesce a individuare forme di solidale comprensione a difesa del comportamento delle guardie, in fondo, poverine, avevano bisogno di soldi ed un lavoro è sempre un lavoro, ebbene, nemmeno questa attenuante per lo spettatore del calamaro, per il tifoso insultante, per chi paga sostenendo il mercato di esseri umani. Per tornare a Flaiano, “un bel giorno ti accorgi che siamo noi; invece credevi che fossero gli altri” ma non ti puoi più occultare nemmeno ricorrendo al pronome plurale.
di Ferruccio Masci