«E adesso? Cosa pensi di fare?», sussurrò una voce gentile che pareva provenire proprio da quel candido e impalpabile agglomerato di nebbia.
Suo padre era lì. Lo guardava con un’espressione indefinibile. Sembrava a due passi da lui, ma al tempo stesso dava l’impressione di sciogliersi, distantissimo, in quella nebulosa. Tutto sembrava sospeso in un’eterna incompiutezza.
Un tepore soffice lo avvolgeva e la sensazione di una quiete infinita gli penetrava i muscoli diramandosi come fluido balsamico.
«Non lo so, ma non ha importanza…» rispose Evan. «Però… non conosco la tua voce… chi sei?» e nel frattempo girò lo sguardo verso suo padre, per cercare un appiglio. Ma il gesto fu vano. Il sorriso triste dell’uomo cristallizzava silenzi che non gli erano mai appartenuti e il bimbo non riusciva a capire. Gli occhi, solitamente penetranti e vividi, sembravano fluidi e trasparenti alla richiesta di conferme. Si produsse in un timido cenno, cercando di tendere le braccia verso Evan, ma una leggera pioggia cominciò a bagnare il suo corpo, facendolo desistere. Un piovasco dallo strano colore porpora che gli rigava il volto, ancora privo di luce ed espressione.
Il bambino non sembrò tuttavia scomporsi. Era come se l’aria fosse permeata comunque di quell’intesa padre-figlio che non necessitava di parole o riscontri espliciti. «Tu cosa credi sia meglio?» chiese Evan all’entità che gli aveva rivolto la parola poco prima, ma non ottenne risposta.
Adesso regnava il silenzio. Al fianco di suo padre, quasi dal nulla, prese forma sua madre. Era più bella del solito ma anche lei non proferiva parola e lo sguardo assente condensava nostalgie e ricordi che Evan percepì in maniera concreta penetrare nelle sue vene. Una vampata calda lo rigettò indietro portandolo sul confine delle sue memorie, spingendolo oltre e ripescando immagini che credeva perdute. Ogni cosa si concretizzava in maniera densa e tridimensionale e i fotogrammi della sua breve vita lo avvolgevano in un abbraccio di indefinibile intensità. Vita addosso. Attimi di esistenza passata riemergevano con ferocia e come colata lavica, incontrollabili, si riversavano sul suo corpo inerme.
Una sagoma minuta si materializzò alle spalle dei suoi genitori immobili. La nebbia era sempre più fitta, ma era facile riconoscere il piccolo Tobias, suo fratello. Anche lui, solitamente così vulcanico e vitale, risultava ora terribilmente posato, composto, evanescente.
Con movenze lente, quasi ieratiche, allungò una mano verso quella di suo padre e l’altra verso quella della madre. Anche il suo sguardo era perso, assente e distante. Ma improvvisamente mosse le labbra, rivolgendosi al fratello Evan.
Quest’ultimo però non riuscì a percepire alcun suono.
Evan provò ad allungarsi verso la sua famiglia ma il suo corpo non sembrava rispondere.
Tobias si girò trascinando con sé i genitori e mentre quella pioggia rossa continuava a cadere senza tregua, girò la schiena al fratello maggiore, allontanandosi lentamente in un silenzio talmente denso da essere tangibile, quasi afferrabile. Il tempo in quel limbo non aveva connotati reali, potevano essere passati pochi secondi oppure giorni interi. Nulla aveva un aggancio con la percezione usuale del susseguirsi delle cose. Erano semplicemente sospesi nell’indefinito.
La nebbia si diradò repentinamente. Un enorme prato fiorito si presentò davanti agli occhi innocenti di Evan. Non vi era più traccia di quello scrosciare purpureo. Un gruppo di persone, tra cui sua madre, suo padre e il fratellino, gli giravano le spalle, camminando verso l’orizzonte. Si muovevano con una leggerezza inconsueta, surreale, quasi come se non dovessero neppure sforzarsi.
Alcuni erano soli, altri si abbracciavano, altri ancora si tenevano per mano.
Una luce fortissima si stagliava sulla linea diritta e monotona di quell’immenso panorama e metteva controluce le sagome erranti che stranamente non lasciavano ombre lunghe alle loro spalle. Un alito caldo smuoveva i fiori e i fili d’erba. Nonostante l’immagine triste di quell’esodo senza senso Evan continuava a provare un senso di quiete innaturale.
Poi, improvviso e ficcante, si alzò un gelido vento e il gruppo di persone cominciò a tramutare il proprio incedere leggiadro in passi stanchi. Ogni cosa sembrò mutare repentinamente e senza preavviso.
Evan venne trafitto da un senso di angoscia pulsante e materico. Si guardò intorno e non vi era più traccia del prato fiorito. Solo fango e terriccio privo di colore. Sul bordo della fessura tra cielo e terra adesso si alzavano alberi secchi con rami spogli. Ombre di guglie scarne si disegnarono sul confine incerto del campo visivo.
«Devi decidere…» disse nuovamente il sussurro che lo aveva destato poco prima. Non c’era più morbidezza in quel suono, ma un metallico riverbero, quasi di lamiera accartocciata. «Devi decidere…» sentì ripetere senza inclinazione alcuna quell’ammonimento che adesso non aveva più neppure le fattezze di una voce e sembrava propagarsi nell’aria senza provenire da un punto preciso.
Davanti ai suoi occhi il gruppo di persone era oramai distante, ma egli percepiva chiaramente che avevano cominciato a contagiarsi reciprocamente della tristezza senza sbocco di chi non ha più scelta. In quell’attesa inerte, ingobbiti verso un nulla, incancreniti da colpe non loro, cercavano di alzare le braccia verso il cielo in un ultimo scomposto tentativo di chiedere aiuto.
Tra quei corpi ormai sofferenti e spettrali c’era anche la sua famiglia. Chiedevano solo di essere lasciati andare.
Di colpo le sue membra vibrarono, fustigate da un carnale richiamo alle sue spalle.
Due mani poderose lo afferrarono alle spalle.
Evan non volle girarsi e cercò con lo sguardo suo padre, sua madre e suo fratello, ma l’orizzonte che prima lo accecava, ora stava degradando bruscamente in un crepuscolo sempre più cupo e faceva fatica a seguire quelle ombre ormai lontanissime.
Nella testa cominciarono ad accavallarsi suoni sempre più confusi, voci che si sovrapponevano tra di loro, urla, rumori. Graffi feroci. Schiaffi terribilmente dolorosi.
Il pulsare delle vene cominciò a rimbombare nel cranio.
«Evan, guarda…. stiamo volandoooo!». riconobbe la voce di Tobias. Quanta innocenza. Quanta ingenuità. Varchi di immagini veloci, velocissime, trapassarono le terminazioni nervose di Evan. Poi di nuovo frasi sconnesse, sovrapposte, ininterpretabili.
«Giacomo, smettila di muoverti! Puoi guardare giù, ma stai seduto ok?». Chi era? No, questa voce non sapeva da dove stesse arrivando.
Eppure gli penetrava da dietro la nuca, limpida. Una fitta pungente e ancora caos, echi confusi, suoni distorti e graffianti.
«Scusi, noi siamo in quattro, potremmo sederci qui, così possiamo stare vicino ai bambini? Lì ci sono due posti liberi…» Era papà! Un nodo gli salì all’altezza della laringe, tramutandosi in singulto. Una fitta profonda gli trapassò il torace all’altezza del cuore.
«Siamo sopra gli alberiiiiii, mamma, guarda!!!». Altri bambini, che non conosceva. Ma erano risonanze lontane, rifrangenze fugaci, che tuttavia generavano punti di appoggio per qualche ricordo sfibrato lungo i percorsi della mente.
«Ci siamo! Dai che siamo quasi arrivati!». Mamma. Dio, come era dolce quel suono. Aveva il potere di avvolgerlo, conteneva la forza di evocare momenti di genuina quotidianità nei labirinti del suo cervello. Dove siete andati senza di me?
Un sibilo penetrò nei timpani di Evan. Poi un colpo secco accompagnato da un’oscillazione innaturale. Silenzio per qualche infinito decimo di secondo. Silenzio assordante, condensato, pregno di terrore.
E il rumore che ne seguì fu un vortice eterno in cui ogni cosa venne assorbita.
Un buco nero senza tempo che risucchiò storie, ricordi, vita.
Rimaneva solo l’abbraccio di suo padre a stringerlo forte senza più coordinate tra il prima e il dopo, tra l’essere e il non essere, tra la possibilità di scegliere o la condanna della resa senza appello, in una velocissima discesa verso il destino.
Ora nel buio solo un piccolo punto di luce oscillava.
Passato e presente erano una giostra. Si intrecciavano tra loro mescolandosi senza soluzione di continuità, calcificandosi in un blocco unico e granitico.
Sarebbe bastato un attimo. Prima. O dopo.
Evan sarebbe rimasto nessuno per molti.
Sarebbe bastato…
E magari quell’immenso nulla in rapido e incalzante avvicinamento avrebbe solo sancito una parziale vittoria, una quiete definitiva. Sarebbe bastato un attimo. Prima. O dopo.
Non ebbe modo di scegliere.
Due braccia forti lo ripescarono dai meandri di un feroce dubbio che cominciava a condensarsi in lama pungente. Un taglio gli squarciò il torace per ricordargli che era tornato, per rimanere come cicatrice in un eterno sopravvivere.
Fuscello solitario sopravvissuto alla tempesta ed ora esposto al vento degli eterni “perché?”.
di Matteo Lorenzi
BIOGRAFIA DELL’AUTORE
Matteo Lorenzi nasce a Trento nel 1979. Dopo gli studi scientifici e la laurea in architettura comincia a occuparsi di grafica pubblicitaria ed editoriale, trasformando questa passione in lavoro. Dal 1998 suona in una rock band che propone brani inediti di cui è compositore sia per la parte musicale che per quella testuale. Autore anche di un musical per ragazzi, di cui ha firmato le canzoni e il copione, dal 2015 ha portato avanti un progetto parallelo di musica cantautoriale, con lo pseudonimo di Kabra, e svariate attività di collaborazione come compositore e collaboratore di rubriche musicali online, in cui si è occupato spesso di recensire uscite discografiche di artisti emergenti. Nel settembre 2020 ha pubblicato per Publistampa Edizioni il suo primo romanzo, “Siero Nero”, che risente molto della sua esperienza più che ventennale nel mondo della musica. Nell’agosto del 2021, con la stessa casa editrice, pubblica il romanzo sci-fi thriller “Kaeru”, dove si misura con tematiche sociali, fornendo una sua particolare prospettiva alla vita e restituendo quel senso di impotenza dell’uomo di fronte alle sovrastrutture che ne regolano l’esistenza.
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