IL SOGNO
“Ciao bella, dammi un bicchiere”, le dissi sorridendo, una volta raggiunto il bancone e assestatomi
su uno sgabello di legno.
Lei mi guardò di lato, girando quasi completamente l’occhio ma senza muovere la testa. Sorrise.
Riempì il bicchiere, superando i tre quarti dello stesso e, con una bella spinta, lo fece scivolare
lungo il bancone, proprio come fanno nelle peggiori locande. Solo che qui i clienti erano sempre gli
stessi, le stesse solite facce da sornioni.
Il sapore del whisky scendeva lungo la trachea, aprendo un varco tra la secchezza delle fauci e la
polvere respirata e inghiottita nel deserto, che durante le giornate ventose faceva entrare la sabbia in
qualsiasi orifizio, in ogni fessura.
Mi avvicinai di un posto, se ne accorse. Il bruciore del whisky nello stomaco semi vuoto iniziava a
consumare quel poco di bile che ero stato in grado di ingerire durante la giornata. Le gengive
cominciavano a perdere sensibilità e l’occhio, già di per sé non proprio vispo, perdeva colpi di
lucidità, lasciando il posto a momenti di assenza e torpore, momenti di silenzio e respiri stanchi.
“Ti aspetto stasera, all’uscita?”, le chiesi.
Senza il minimo cenno facciale, come se fosse di pietra, come se fossi inesistente davanti i suoi
occhi, abbassò lo sguardo continuando a strofinare con calma le stoviglie per asciugarle.
“Un’ora e sono fuori” bisbigliò.
Scattai in piedi come se mi avessero azionato a molla, con la schiena arcuata quasi all’indietro e gli
occhi spalancati a cercare di mettere a fuoco l’ambiente circostante. Andai via senza salutare, senza
neanche finire il bicchiere e mezzo incocciato mi diressi quanto più velocemente mi era permesso di
muovermi, verso casa.
Mi gettai, così com’ero, sul letto sfatto e polveroso. Pensai che, forse, una mezz’ora di sonno mi
avrebbe dato qualche momento in più di veglia. Non volevo perdermi, di certo, quell’opportunità. E
sicuramente non volevo presentarmi ubriaco e sporco all’appuntamento. Mi sarei dato una
sistemata, subito dopo il pisolino veloce e sarei corso da lei. Avremmo passeggiato, parlato un po’,
ammirato il tramonto lungo le colline desertiche, tra cactus e ambrosie, tra fumi in lontananza e
ululati al primo accenno di luna. E avremmo osservato il disco rosso del sole scendere verso gli
abissi dell’orizzonte, magari tenendoci per mano, magari sfiorandoci le labbra con gli occhi
socchiusi…
Mi addormentai felice, con quest’immagine in testa.
“Hey, quanto altro tempo mi vuoi far aspettare?”.
Sobbalzai. Sgranando gli occhi, cercando di capire dove mi trovavo e chi era stato a sussurrarmi
quelle parole all’orecchio, mi sedetti sul letto, sul quale stavo ronfando profondamente fino a pochi
secondi prima.
E la sua figura distesa e sorridente mi colpì l’animo. Come se un coltello mi avesse trafitto il cuore e
pugnalato e pugnalato ancora, più volte, sempre nello stesso punto. E sentii il caldo divampare dalle
mani, lungo le braccia e verso il petto, per poi esplodere come un’eruzione salendo, puntando collo,
guance e tempie.
Lei era lì, bella, bellissima. Più bella di tutte le volte che l’avevo vista in quel buco di locanda. Più
bella di qualsiasi altra persona io abbia mai incontrato in questo mondo. Bella solamente al pari del
mare e del suono delle onde che si infrangono lungo la costa isolana, del quale però avevo ricordi
ormai sbiaditi, come fossero di una vita passata.
Lei era lì per me e io già ne ero follemente innamorato.
Questo è il mio ricorrente sogno a occhi aperti quando, ogni sera, aspetto prima di assistere alla
chiusura del locale e prima di scortarla a distanza, durante il ritorno a casa.
Di Fabio Valerio
@erofaalbivio