IL POZZO
“Aspetta, non ti muovere. Lo vedi il bastone? Prova ad afferrarlo!”
“No, non vedo nulla qui, è troppo buio!”
“Allora provo ad allungarmi un po’, magari riesco a toccarti in qualche modo. Chiudi gli occhi per
sicurezza e cerca di alzare le braccia!”
“…Credo di essere sottosopra, a testa in giù. Mi batte la testa e mi sento scivolare ancora più giù…”
“Fatti forza amico mio… Mi dispiace, mi dispiace! Non l’ho fatto apposta. Scusa!”
“Dai, vai a chiamare mia mamma! Che tanto al massimo mi metterà in punizione. Lei troverà
sicuramente un modo per tirarmi fuori di qui. Ma sbrigati che non mi sento bene, ho mal di testa”.
“Ti prego perdonami, non l’ho fatto apposta te lo giuro!”
“Ti credo, ma adesso basta piangere e vai a chiamare aiuto!”
Non lo vedevo quasi più. Man mano che parlava scivolava sempre più in basso e la sua voce si
faceva più lontana.
Mi mancava il respiro e non riuscivo a pensare a cosa fare. Lui non mi aveva incolpato e stava
chiedendo il mio aiuto, avrei dovuto chiamare qualcuno per aiutarlo, cercare sua madre ma poi…
Ma poi avrebbero dato a me la colpa. E come avrei potuto sopravvivere con questo peso?
Con gli occhi accusatori, di tutte le persone del paese, che mi avrebbero osservato e scrutato, a ogni
passeggiata o commissione in centro.
E come avrei potuto spiegare che era solo uno stupidissimo scherzo? Non avevo di certo pensato a
quel tipo di conseguenze. Ti pare che una spintarella possa far cadere il tuo migliore amico in un
buco profondo decine di metri? Ti pare…?
Eppure lui era lì sotto e io non riuscivo a pensare ad altro che il sentirmi enormemente in colpa.
Accovacciato sul bordo del pozzo, osservavo, con occhi come ipnotizzati, la flebile ombra del mio
amico che, a poco a poco, sprofondava sempre più.
La sua voce si era ormai fatta molto molto debole. Sentivo una lontanissima richiesta di aiuto e le
mie lacrime cadevano giù, fino, credo, a bagnare le gambe del mio amico.
Il fiato mi mancava, il cuore sembrava volesse uscire direttamente dal centro del mio petto e un
dolore folle alla gola mi comprimeva le corde vocali. Provai a chiamarlo un’ultima volta, per sapere
se ancora mi sentiva, se ancora era vivo. Non uscì neanche un sibilo dalla mia bocca.
Riprovai di nuovo, niente. Provai a urlare, a cercare di tirare fuori quanta più voce possibile, nulla.
Non potevo parlare, e la gola sembrava volersi occludere dall’interno. Sentivo come una stretta forte
al collo, come se avessi inghiottito un sasso.
Passarono i minuti, poi le ore, finché non si fece quasi buio. Il mio amico non parlava più da
parecchio e io non vedevo più neanche la sua sagoma, dato il tramontare del sole.
Tornai a casa, sporco di fango, bagnato dalle mie stesse lacrime che continuavano a uscire in
quantità, lungo le guance, inumidendo il colletto della camicia. Mi ritrovai, al rientro, impietrito
davanti la porta di casa finché mia madre non mi scorse da una finestra e si affrettò ad aprirmi.
“Ma dove sei stato tutto questo tempo? Non vedi che è tardi? Sei tutto sporco di fango… Dai vieni a
fare il bagno. Anche la mamma del tuo amico è in pensiero, ma non eravate insieme?”
Guardai fissando mia madre, con gli occhi gonfi e spenti, come se guardassi l’orizzonte lontano
anziché il suo viso a poca distanza. Pensai a quanto successo, al dolore, al pentimento, alla paura…
NO, feci cenno con la testa e mi accompagnò in bagno a lavarmi.