GAN ‘EDEN
Capii pian piano le regole che determinano un sistema del genere.
L’ “entra e non te ne vai più” era una di queste.
Non ricordo esattamente il mio arrivo in questo villaggio sperduto, come non ricordo cosa sia successo tra la mia vita passata e questa esperienza, ma ho sempre avuto la netta sensazione di non aver potuto scegliere se venire, sostare o andare via, a mio piacimento.
Mi ci sono ritrovato, e questa era una conditio sine qua non. In effetti non avrei scoperto delle parti di me, se non fosse stato per questa esperienza obbligata; e così è andata.
Anche il voler sostare o meno, contrariamente a quanto si possa pensare, non poteva dipendere dalla mia volontà. Fino alla fine dell’esperienza non mi era, neanche, mai sorto il dubbio se mi piacesse o meno stare qui, se era stata una mia scelta o un susseguirsi di eventi incontrollabili; ero qui, punto. Non potevo fare altrimenti. E se qualcuno mi avesse chiesto se avessi preferito andarmene o meno, probabilmente avrei risposto che mi sarebbe piaciuto andar via, prima o poi. Più poi che prima.
Nessuno lo aveva consapevolmente scelto e nessuno, nel villaggio, si era mai sognato di poter credere che avrebbe potuto andarsene o, anche solo, allontanarsi per un periodo. Come nessuno ha mai sentito la necessità di allontanarsi dalla recinzione, seppure per poche miglia. Il massimo che si poteva e si voleva fare era uscire dal recinto di qualche passo, per poi tempestivamente rientrare.
Devo dire che, a differenza degli altri, io amavo uscire dal perimetro di legno, guardare verso l’orizzonte per scrutare in lontananza le sagome dei villaggi di indios e osservare la solitudine della Luna. Con la schiena poggiata sulla parete del recinto, con il naso all’insù, a sognare chissà cosa, a godere di quegli attimi di isolamento, a pensare a Dena…
Per dirla tutta non sono neanche sicuro che, al mio arrivo qui, tutto già fosse così o qualcosa fosse cambiato, poi nel tempo.
Come non ricordo le notti, le veglie al buio pesto, le levate di mattino presto, il mio intimo da letto, il mio giaciglio, la mia abitazione.
Avevo solo la percezione di aver passato molte giornate e molte nottate lì, direi diversi anni, ma non ho ricordi nitidi di questo trascorrere del tempo. Come se ci fossimo, noi tutti, ritrovati in un luogo dove il tempo non scorre mai e non manifesta, brutalmente, il suo inarrestabile declino.
Come se tutto il tempo passato in questo luogo si fosse, in realtà totalmente e interamente, svolto da una mattina a una sera.
Come se tutte le centinaia di giornate passate ad annoiarsi fossero, davvero, solamente un unico, lunghissimo giorno lento.
Non saprei dire neanche se al mio arrivo c’erano meno persone e poi ne sono arrivate altre, successivamente.
Tutta l’esperienza è stata sempre contornata da un alone di misteriosa confusione, simile a un banco di nebbia – tipico dei miei posti originari – che offusca i ricordi, per non permettere un accesso nitido ai dettagli; come se l’importante non fosse stato, tanto, il susseguirsi degli eventi, le tempistiche, i nomi, i ricordi, i dettagli e l’affezionamento alle cose, quanto il vivere l’esperienza in sé per andare il più possibile in introspezione; per cercare ognuno all’interno di sé, la risposta alle proprie vicende, non totalmente elaborate durante l’arco della vita precedente.
Le credenze orientali lo chiamano bardo, i cattolici lo chiamano purgatorio.
Nella sostanza sembra un luogo creato appositamente per lavorare sulle cose lasciate in sospeso: un luogo dove poter lasciar andare, per prepararsi a nuove avventure.
di Fabio Valerio
@erofaalbivio