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La colpa e la solitudine

Sant’Agostino, filosofo e teologo (350-430 d.C.) in occasione delle invasioni straniere, si pronunciò a difesa delle donne con parole sorprendenti per la loro modernità, ma rimaste inascoltate fino ad oggi. Esprimevano un concetto tanto banale, quanto incomprensibilmente difficile da fare nostro.

Gli aggressori, oltre a saccheggiare paesi e città, come sempre accade in tutte le guerre, violentarono le donne, con quell’intento di sigillare l’avvenuta presa di potere. Io sono il nuovo padrone e in questa terra, ora mia, nasceranno figli miei.

Un gesto significativo che oltre a essere uno sfregio all’uomo vinto, ha anche come fine quello di ripulire la terra conquistata dal sangue del vecchio abitante.

Come ben sappiamo le donne non più vergini sono sempre state considerate una merce di scarto, così dopo gli stupri subiti venivano emarginate, abbandonate e costrette a un futuro incerto.

A difesa delle donne violentate dai Visigoti Sant’Agostino disse:

Nessuno, per quanto magnanimo e pudico, è responsabile di ciò che altri fanno al suo corpo. Chi sarebbe così irragionevole da credere di poter perdere la pudicizia se per caso nel suo corpo, preso ed oppresso, si compie una libidine non sua?”

Eppure, è questo che accade.

L’opinione pubblica, taluni avvocati, taluni giudici inducono le vittime a un senso di colpa di per sé inesistente. Dalla lettera di una vittima:

La violenza che mi è stata arrecata quella notte, la violenza di mille interrogatori della polizia, la violenza di diciannove ore di processo in cui è stata dissezionata la mia vita, dal tipo di mutande che porto …

La ragazza si chiede se sia bene denunciare, ma è forte, coraggiosa, determinata e sa di non essere colpevole. Ma quante donne sono così forti? E in quante devono combattere, sole, contro un’opinione pubblica e delle istituzioni che non sempre le accompagnano e le tutelano come dovrebbero? E che tutto fanno per farle sentire sporche e colpevoli?

Durante tutta la procedura le vittime vengono giudicate, prima, durante e dopo il momento della violenza. Si insinua in tal modo in esse un senso di sporcizia, di colpa, di inadeguatezza che mortifica la loro persona fino all’ultima cellula.

Prima: “come eri vestita?”, “avevi bevuto?”, “hai sorriso?”, “avevi i tacchi?”, “eri truccata?”, “perché non sei rimasta a casa?”.

Durante: nonostante le testimonianze, un inopinabile referto medico, le lacrime della vittima, cinque stupratori ottengono un forte sconto di pena per declassamento del reato a semplice abuso, perché i giudici decidono di analizzare il video che uno dei cinque si era divertito a girare durante la violenza. “La ragazza non è stata abbastanza incisiva a dire No” ovvero i poveretti non potevano capire (Spagna 2016).

Dopo: una vittima viene ripresa da una telecamera all’uscita dal luogo dove si è consumata la violenza. “La ragazza appariva tranquilla“, quindi i violentatori di turno sono stati rilasciati all’istante.

Nel 1998 si sentenzia: “Le lacrime di una donna violentata, possono diventare un elemento che inchioda l’uomo e valere come prova idonea a garantire la sincerità delle dichiarazioni della donna offesa“.

Insomma, se piangi e ti butti in strada urlando mezza svestita hai qualche possibilità in più, poco importa cosa ne dice un referto medico. Non devi essere troppo bella, altrimenti si può ben comprendere come un uomo possa cadere in tentazione, non devi essere nemmeno troppo brutta, come ha sentenziato recentemente un giudice donna, la gonna non deve essere troppo corta, ma nemmeno troppo lunga, spalle e braccia coperte e magari un bel foulard in testa a coprire una chioma che potrebbe indurre anch’essa in tentazione, e comunque “se te ne fossi rimasta a casa, niente sarebbe accaduto“.

Ancora oggi questo è il pericoloso messaggio che viene dato in pasto all’opinione pubblica, argomento vergognosamente accettato nelle aule dei tribunali.

di Stefania de Girolamo

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