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Il poeta Edouard Glissant e la creolizzazione

Lo scrittore francese Edouard Glissant usava il termine “creolizzazione” per definire il miscuglio delle culture e la conseguente creazione spontanea di pratiche comuni del tutto nuove. Egli affermava che non si può sprofondare nel buio atavico delle origini alla ricerca di una pretesa purezza; le radici culturali si allargano in superficie come rami di una pianta, a incontrare altre radici e stringerle come mani. L’ossessiva difesa, la muraglia che si vuol costruire attorno alle proprie radici – diceva Glissant – è la prigione dell’identità.

Quella cinese fu costruita per impedire agli invasori di entrare, ma impediva anche ai cinesi di uscire. C’è la storia di quel generale che sorvegliava la frontiera e, vedendo un’apertura fra due alte montagne, disse ai suoi uomini: «là c’è il mondo e noi non ci andiamo». Chiudersi in se stessi è terribile quanto essere conquistati dall’altro o conquistarlo. I popoli del passato hanno ben praticato la creolizzazione delle culture che incontravano.

Tra di essi nasce spontaneamente la volontà di creolizzarsi, è la politica che vuole invece assimilare, uniformare alla propria comunità chi arriva dall’esterno. Integrazione è la parola più spesso usata. Glissant sapeva bene che la Francia è il Paese che ha più profondamente praticato la creolilzzazione: già ai tempi dell’Impero romano i francesi si proclamarono “gallo-romani”. All’interno delle zone romanizzate prevaleva una cultura celtica che si mescolò con quella latina. Per contro nella storia fu l’assimilazione forzata a non aver funzionato. Jean Baptiste Colbert voleva francesizzare gli indiani irochesi, ci riuscì mai? No. I monarchi francesi volevano rendere il paese cattolico e fecero ben otto “guerre di religione”. I protestanti in Francia sono forse scomparsi? I colonizzatori degli stati africani riuscirono forse a occidentalizzare quei popoli? Crearono solo un nuovo tipo di schiavi. Superando gli esempi del passato portati dal poeta francese possiamo comunque porci una domanda: a cosa ci si dovrebbe assimilare? Qual è la cultura di partenza in riferimento alla quale ognuno di noi può dirsi “assimilato”? Le culture, cioè il modo di vivere, le arti, la cucina, la maniera di esprimersi, non sono dei blocchi omogenei dai contorni facilmente identificabili. L’insieme delle pratiche sociali che noi chiamiamo “cultura” è in costante evoluzione. Essa è sempre il risultato dei contatti pacifici o violenti fra le popolazioni. Possiamo pensare dunque che il nostro popolo e la nostra nazione siano diversi? Che la nostra cultura non sia anch’essa un processo dell’evoluzione scaturito da quei contatti?

La creolizzazione è già dentro le lingue da molto tempo: sono più di un centinaio i termini inglesi che si usano correntemente all’interno della lingua italiana; oltre duecento parole derivano dal francese e oltre centocinquanta sono di origine germanica. Diverse parole derivano dallo spagnolo, per non parlare dell’arabo. Ed è lo stesso ovunque. Ciò che chiamiamo cucina italiana non è altro che la mescolanza delle cucine popolari regionali, dovuta alle migrazioni interne. Molti dei nostri dolci e alcuni piatti derivano dalla cucina araba. Viceversa: non è forse la pizza (a proposito, sembra che la parola derivi dal tedesco “bissen”) un alimento consumato in più parti del mondo? E cosa dire delle influenze straniere sulla musica popolare a partir dall’inizio del XX secolo fino all’attuale ondata del rap? “L’erranza è un principio che vale in tutti i campi della vita. Ogni realtà è un arcipelago; vivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi” (Edouard Glissant).

di Francesco Pino

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Fonte immagine dal sito Edouardglissant.fr

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