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In viaggio con il caos

“Io vi dico: si deve avere ancora del caos dentro di sé per poter generare una stella che danza” sono parole tanto citate da essere abusate, una meravigliosa moneta che va perdendo il proprio valore nel momento in cui viene consumata dallo strofinio di mani che l’impiegano per il mercato fino a cancellarne l’effige.

Nello Zarathustra la si incontra tra le prime pagine, nella “Prefazione di Zarathustra“, il momento in cui il sacerdote, abbandonate le montagne, prova a rivolgersi ai suoi nuovi ascoltatori che lo osannano senza comprenderlo: “Non mi capiscono – si sussurra mesto il profeta – io non sono la bocca che fa per questi orecchi“. Poco più oltre, in una delle sue folgoranti sintesi, il pensatore definisce tutti coloro i quali non hanno orecchi per le sue parole: “Nessun pastore e un solo gregge”. Il messaggio del più travisato e citato dei filosofi moderni si incammina verso l’arcobaleno per invitare alla creazione dell’ Übermensch , l’oltre uomo. Una indispensabile precisazione va fatta preliminarmente sul valore del termine caos: esso non significa disordine, non si pone nella logica delle antitesi, rappresenta il momento in cui tutto è ancora da essere, quello nel quale lo sguardo di un osservatore renderà ogni cosa ciò che è determinando lo stesso soggetto osservante.

Questione complessa che non è possibile approfondire ora ma che tratteremo nella prospettiva specifica di questa riflessione, per ora ci basti quanto sintetizzato quindi proviamo a visitare con “uno sguardo altro” l’esortazione nietzscheana rivolgendola al nostro quotidiano, certo più modestamente ma sempre sulle tracce del pensiero di Nietzsche, che il suo messaggio più rivoluzionario, a mio avviso, è quello di una filosofia capace di essere ruminata e vissuta e non confinata nell’iperuranio platonico, una filosofia in grado di assisterci nel compito più arduo: divenire noi stessi.

Credo che a nessuno faccia piacere essere definito e ancor più reputarsi una pecora del gregge, la soluzione è, per molti, cercarsi un pastore che dia senso al proprio belare, altri tentano la carta della cosiddetta trasgressione, altri ancora abdicano accettandosi come pecore. Credo che la prospettiva suggerita dall’autore dello Zarathustra vada letta come un invito ad uscire dal gregge per intraprendere un percorso che va fatto da soli, il viaggio verso se stessi. In questo tragitto normalmente si pensa di procedere verso una meta che è già in atto ma, ancora una volta, si tratta di un più o meno consapevole autoinganno.

L’io come traguardo non esiste, esso viene creato ad ogni passo e ci precede e si allontana da noi esattamente come l’orizzonte, non è importante raggiungerlo ma divenire in viaggio …divenire il viaggio! Certo, bisogna credere profondamente nella possibilità di successo e allora accadrà, si raggiungerà quell’orizzonte nel momento stesso in cui lo si incontrerà dentro di noi, da lì in poi sarà meraviglioso superarlo e ritrovarlo più oltre ad attenderci per un nuovo cammino.

Mi sembra evidente che, in un quadro di logica convenzionale, sia assurdo l’incedere nella speranza di afferrare l’orizzonte così come l’ipotesi di essere il viaggio e perennemente mutanti come ogni paesaggio che attraversiamo, ed è un modo per “suggerire ed evocare” il senso di quel caos che dobbiamo gioire nell’ospitare.

Una volta abbandonate le certezze convenzionali: il tragitto quotidiano dall’ovile al pascolo e ritorno; una volta superate le parole consunte e vuote del dialogo educato e convenzionale: il belare che omologa; ebbene, solo allora sarà possibile ascoltare la nostra voce, pronunciare le parole che chiedono coraggio nell’essere dette e amore nell’essere comprese, inventarsi percorsi per mete finalmente scelte.

È tempo di abbandonare definitivamente la grande filosofia per accostarci alla nostra quotidianità: cosa significa infine avere del caos dentro di noi? Quando sembra che siano scomparse le certezze, tutte le verità che abbiamo nel corso degli anni imparato ad accettare come tali, quegli obiettivi che ci sembravano rappresentarci ed improvvisamente appaiono come voluti da altri o da altro e nei quali non ci riconosciamo più, quelle solide fondamenta del nostro “tutti i giorni” che ora vacillano e ci lasciano in balia di un fastidioso mal di mare … eccolo il caos, quello che convenzionalmente trasformiamo in un “sono in crisi”.

Quella condizione che solitamente si determina quando finisce una storia d’amore, quando un amico ti delude, quando scopri che non ti interessa la facoltà universitaria che credevi essere la risposta ai tuoi progetti, quando andare al lavoro è solo grigia routine. Per dirla da un diverso punto di vista: quando devi prendere una decisione che non è già stabilita da altri, dal comune modo di pensare, dalla logica dominante, da tutto quello che ti sembrava ovvio e saggio.

Allora la domanda diviene: nel tempo in cui tutto ti sembra chiaro, assolutamente logico, addirittura inevitabile, sei sicuro di essere tu a vivere la tua vita? Davvero quello è un momento di salutare equilibrio? Non sarebbe più onesto riconoscerlo come l’abdicare alla scelta, all’assunzione di responsabilità su quanto saremo e faremo, il cancellarsi nell’anonimato del gregge senza pastore? In questa prospettiva il momento più vero, la radura inattesa nella quale incontrarci o, più banalmente, l’essere in crisi, diviene un’epoca di pienezza, di emozione, di vita vissuta. Certo, con momenti di paura: la scelta potrebbe essere quella sbagliata. E se finalmente la smettessimo di cercare di “fare la cosa giusta”, giusta per chi poi, tentando di essere veri? Non potremmo comunque affermare di aver raggiunto noi stessi, ossimoro concettuale, ma per certo ci saremo incamminati lungo il percorso che ci consentirà di “divenire noi stessi”, non giusti o sbagliati, non trasgressivi o omologati, ma in viaggio, col piacere di poggiare il prossimo passo non su orme altrui, ma su terre inesplorate, le nostre terre segrete. Ci possono essere ancora di aiuto le righe del filosofo: “Nessuno può costruire il ponte su cui voi, e solo voi, attraverserete il fiume della vita. Certo esistono innumerevoli sentieri, strade e semidei che sarebbero lieti di portarvi, ma al prezzo di rinunciare a voi stessi.” E quando, traghettati sull’ultima riva ci volteremo a meditare sul viaggio la domanda che ci porremo sarà: “Ho davvero vissuto?”.

Ci sarà sempre chi vorrà, magari anche in assoluta buona fede, aiutarti a mettere in ordine il caos, proprio perché tu stesso sei sconvolto da quella mancanza di certezze, ma sarebbe un negarsi all’occasione.

Ebbene, solo se saremo stati padroni delle nostre deliberazioni, se avremo assaporato paure ed ebbrezze, successi e cadute ma sempre assolutamente autografi, allora sì, potremo rispondere in tutta pace con noi stessi: “Io sì, ho davvero vissuto”. Ma non si può rimandare, qui ed ora è il momento di godere del caos che abbiamo riconosciuto in noi, quella polvere occultata troppo a lungo sotto il tappeto della convenzionalità, eccola risplendere al sole del meriggio, rivelarsi per ciò che è.

Per quel momento, quel nuovo inizio è bene essere in crisi così da poter far nostre le parole di Zarathustra: “Per questo solo giorno io sono per la prima volta contento di aver vissuto la vita intera – e concludere alzandoci in piedi – Questo è il mio mattino, il mio giorno incomincia: alzati, alzati, grande meriggio”. E finalmente siamo giunti a comprendere chi è la stella che balla: siamo noi, finalmente luminosi, lanciati nella danza matissiana, in un cerchio del quale siamo l’inizio e la conclusione, espressione di noi stessi, tenendo per mano un io che non ha bisogno di raggiungersi, di conoscersi, di mettersi in ordine, un io finalmente capace alla vita che inventa al ritmo della propria musica.

di Ferruccio Masci

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