Un giorno lento (puntata 11)
IL PICCOLO GIUSEPPE
La madre morì proprio durante il parto. Si dice fosse di una bellezza incredibile.
Purtroppo le credenze, le tradizioni e le maldicenze, in questi posti remoti della Terra, creano vincoli insuperabili e ostacoli insormontabili; per questo fu lasciata sulle rive del fiume dal padre.
Per sua fortuna – se così vogliamo definirla – un omino del villaggio di indios poco distante la vide e la portò con sé. Non proprio una persona qualunque, ma il figlio del capo del villaggio adiacente. Un pezzo grosso, ma non di statura.
Era bassino, con dei profondi solchi lungo il viso, i capelli lunghi e annodati all’altezza delle scapole. Le linee che si disegnava sulla fronte poco avevano a che fare con la sua forma fisica; però era un buono e lo si capiva da subito. Dallo sguardo, dalla postura e dal sorriso sdentato che allargava come un ombrello rotto, seppur fosse ancora giovane.
Non avrebbe saputo che farsene di quel piccolo fagottino di ciccia morbida, ma sapeva che non avrebbe potuto lasciarla lungo il Mississippi, neanche qualche minuto in più.
Forse fu il caso, forse qualcuno da lassù stava osservando l’andamento delle cose, sarà che il piccolo Giuseppe, vista la vicinanza al cristianesimo voluta dal padre di lui, conosceva il parroco del nostro villaggio.
E fu così che decise, quindi, di lasciare la piccola Dena – colei che viene dalla vallata – sulle scale della chiesa, che anche il genitore, di tanto in tanto, frequentava.
Il suo nome alla nascita non era Giuseppe, ma il padre, convertitosi al cristianesimo, decise di battezzarlo con il nome Joseph; che poi diventò Giuseppe il giovane, e dopo ancora Capo Giuseppe, quando prese il posto del padre al comando.
Egli la lasciò avvolta nel suo mantello bianco, così come l’aveva trovata, nella sua culla, quella dove il padre l’aveva adagiata l’ultima volta.
Aggiunse solamente il suo bastone personale, dove incise il nome che avrebbe voluto le fosse rimasto affibbiato, con il battesimo: Nukpana, vale a dire “male”.
Purtroppo per lei, non fu mai battezzata.
Di lì a poco il villaggio andò in rovina. Siccità, carestia, malattie e saccheggi fecero scappare quel poco di popolazione rimasta in vita e tutto andò in declino e in macerie nel giro di breve tempo.
La piccola Dena, la piccola mai stata battezzata, la piccola abbandonata alla quale si sarebbe voluto dare un nome nefasto, portò disgrazia e disperazione.
Tanto da decidere di lasciarla essiccare al sole. Senza alcun rimorso, senza alcuna paura, senza nessun tipo di empatia.
Forse per questo, nel mio pensarla adulta, la vedevo così schiva e solitaria, ma anche forte e determinata. Come avrebbe potuto, la sua anima, sopravvivere a tanta perfidia e scaramanzia?
Di tanto in tanto, quando ancora non ero cosciente della situazione di immaterialità che vivevamo, mi fermavo a osservarla e un bene prezioso cominciava a farsi strada nel petto, passando per la gola e infine posizionarsi tra le tempie. E sentivo pulsarmi le vene. E sentivo il bisogno di prendermi cura di lei, come gli altri non erano riusciti a fare. Come tutte le volte che passavo, alla chiusura del locale, per sincerarmi che nessuno le desse fastidio.
“Cara Dena, il male che ti ha circondata è stata una costruzione immorale di chi, invece di amare ed essere grato, ha deciso di vivere nella perdita e nella mancanza. Non ti hanno meritata e così facendo, hanno creato intorno ai loro bacini solo negatività. E dispiacere.”.
Forse avrei voluto dirle questo, un giorno. Ma non mi riuscì di dire mai neanche un “hey!”.
Dena venne lasciata lungo il fiume Mississippi aspettando che la portasse tra le acque, il vento. Dena se ne andò nel deserto, aspettando che portasse via con sé le sue polveri, il vento.