Il sapore del mango
“Negli altri puoi incontrare sempre e solo te stesso” è una delle affermazioni di Gershom Freeman che mi hanno più spiazzato, al primo sentire, ma che ho poi compreso essere tanto fondata quanto gravida di spunti di riflessione davvero determinanti.
Gershom non è solo un caro amico, ma anche e soprattutto un eccellente scrittore per palati raffinati, autore di thriller psicologico esoterici, è capace di sintesi provocatorie e profonde come quella di apertura che spesso fa pronunciare ai suoi personaggi, ma proviamo a dedicare il nostro “sguardo altro” a quanto afferma per verificarlo e renderlo interessante per il quotidiano di chiunque poiché credo che la filosofia, anche e soprattutto la più alta, debba saper accedere alle vie del “tuttigiorni” e celebrare la propria capacità di suggerire risposte o ipotesi di soluzione anche agli interrogativi a prima vista più banali, magari riscoprendo in essi il valore profondo dell’esistenza di ogni essere umano: ed ora chiudiamo definitivamente il preambolo ed immettiamoci d’un balzo in medias res.
Che può mai significare che negli altri incontriamo noi stessi? Se l’incontro è tra me stesso ed un altro da me, o non incontro l’altro incontrando me stesso o non incontro me stesso per poter tentare di incontrare l’altro! Secondo la logica convenzionale il ragionamento è corretto, eppure, una volta determinato a comprendere, mi sono dovuto fermare, sospendere la corsa alla quale siamo tutti omologati, per regalarmi qualche minuto di ripensamento cercando a priori di abbandonare pregiudizi inevitabilmente censori di nuove possibili prospettive e, in questo modo, qualche illuminazione è sopraggiunta. Per provare a condividere alcune intriganti conclusioni farò ricorso ad una allegoria, credo infatti, nella fondatezza delle parole del mio antico maestro di filosofia quando affermava: “Anche le speculazioni più complesse se davvero ben masticate e digerite possono essere comunicate e, se davvero ci si vuole far capire, si deve essere in grado di accantonare un lessico specialistico per rendere semplice il complicato e, solo dopo, sarà possibile elevare il contenuto ad un linguaggio più adeguato in una sorta di “illuminazione reciproca”.
Provo, pertanto, a chiarire il mio pensiero ricorrendo ad un esempio: se avete assaggiato il frutto del mango credete di essere in grado di spiegarne il sapore a chi non ha avuto la vostra stessa esperienza? Certo, potrete fare paragoni, come dire, assomiglia a … però è più … o forse meno … ma di certo non vi sarà possibile essere davvero compreso, infatti se qualcosa assomiglia o ricorda altro, necessariamente non è l’altro.
La considerazione più divertente, però, è che sarebbe ancor più impossibile comunicare la vostra sensazione a chi avesse assaggiato il frutto stesso, già, potreste infatti affermare che il sapore del mango lui lo conosce, ma come avreste la certezza che la sua percezione del gusto sia la medesima che avete vissuto voi? Insomma, quando assapori un frutto, quando vivi un’emozione, quando leggi un libro o quando incontri una persona, ciò di cui davvero fai esperienza è del tuo gusto, della tua sensibilità, del tuo senso critico, del tuo coraggio di giocarti in un rapporto. Mi sembra abbondantemente chiarito l’apparente paradosso con il quale ho aperto questo scritto, noi facciamo solo esperienza della nostra capacità di incontrare l’altro, in questo modo possiamo nell’altro riconoscere la nostra disponibilità alla novità oppure la nostra chiusura, possiamo scoprire i nostri pregiudizi, non negandoli ma utilizzandoli come chiavi di lettura di ciò che esperisco così da comprendere il nostro punto prospettico, quindi, ancora una volta noi stessi.
Possiamo riflettere su quanto il contesto del momento ed il percorso che ci ha condotti all’attimo della percezione abbiano determinato le modalità della nostra esperienza, ma anche questo avrebbe un’efficacia formidabile non per conoscere l’oggetto, ma per meglio cogliere il soggetto e la sua indole, la sua attitudine a metabolizzare alcuni elementi del quotidiano e a trascurarne altri, la sua predisposizione a soffrire di certe esperienze ed a gioire per altre, ma, ancora una volta, questo ci potrebbe aiutare ad incontrare e meglio comprendere sempre e solo noi stessi.
Certo, il cosiddetto realismo ingenuo è un modo di pensare la vita estremamente più semplice, sarà sufficiente convincerci di entrare in contatto con la realtà in maniera oggettiva, in quel caso l’espressione “il sapore del mango” non ci creerebbe nessuna difficoltà e potremmo utilizzarla per comunicare con gli altri, in fondo che importa se mentre io parlo della mia esperienza e del mio giudizio e del mio apprezzamento di un certo sapore il mio interlocutore comprende tutt’altro? Sarà così possibile ignorare che sta riflettendo sul suo giudizio e sul suo aver goduto o meno la volta che ha assaggiato il frutto.
Ebbene, ce ne faremo una ragione, che senso ha stare ad arrovellarsi intorno all’impossibilità di condividere profondamente l’esperienza ed il giudizio circa il sapore del mango? Chissà, forse davvero esistono persone capaci di concludere che “Alla fine, se ti piace lo mangi altrimenti no e basta menate”!
Mi auguro che simili soggetti siano confinati nelle barzellette o in qualche film pseudo comico di infimo livello, già, perché sarebbe sufficiente sostituire all’espressione “il sapore del mango” concetti come amore, amicizia, onestà, libertà, giustizia, rispetto … per comprendere quanto sia terribile la solitudine nella quale si vive, quanto sia desertificante il nostro incedere in un mondo di parole che reputiamo essere un meraviglioso strumento di comunicazione ma che non ci consentono di entrare in rapporto profondo con i nostri compagni di cammino.
È evidente che, se il mio linguaggio ha come scopo solo il più elementare e funzionalistico pragmatismo, non ho problemi, insomma, se chiedo a qualcuno di passarmi il libro rosso appoggiato laggiù sulla mia scrivania non credo che l’incomunicabilità occhieggi cattiva tra le mie parole ed il gesto sicuro e cortese del mio interlocutore che mi porge proprio quel libro, eppure sono sicuro che a chiunque sia capitato di voler dire “altro” e le nostre parole non lo permettono. Insomma, quando affermo “ti amo” sto condividendo “il sapore del mango”, ma gli occhi nei quali mi rifletto stanno davvero cogliendo il “sapore del mio sentimento”?
In questa profonda malinconia nella quale ci inabissa la coscienza di non poter condividere davvero nemmeno il sentimento più intenso ed importante della vita, mi piace concludere con un sorriso, almeno ci provo: a chi non è occorso di affermare, o almeno sentirlo fare da qualcuno, “Io con gli amici sono sempre stato generoso ma gli amici mi hanno sempre deluso“, mai che uno ammettesse di essere lui una delusione per un amico!
A questo punto, non fosse altro che per un banale calcolo delle probabilità, è inevitabile supporre che forse solo uno o, al massimo, pochissimi farabutti gironzolino per il mondo danneggiando allegramente tutti quei buoni che si fidano di loro, ma forse esiste anche un diverso punto di vista capace di suggerire di smettere di incontrare negli altri solo negatività che se, cosa non improbabile, fosse corretto quanto afferma il mio amico Gershom Freeman e negli altri incontriamo solo noi stessi … insomma, penso che potrebbe essere molto più saggio riconoscere bellezza negli altri, è vero, forse si rischierebbe qualche delusione, può essere che non avesse torto il grande vecchio della politica italiana quando assicurava che “a pensar male si fa peccato ma si indovina”, già, ma con che pro?
Al contrario: se imparassimo a regalare sorrisi e fiducia quanta più luminosità abiterebbe la nostra giornata e non sarebbe allora probabile incontrare negli altri altrettanta bellezza?!
di Ferruccio Masci