Ma è un’opera d’arte?
Foto: Scala, Firenze
“[…] è ancora possibile e necessario applicare in campo artistico la distinzione tra ciò che è serio e ciò che è insulso […] perchè da varie parti non certo disinteressate si negano queste distinzioni, in base all’assunto che la sola misura di merito sono le cifre delle vendite o che queste distinzioni sono elitarie o che […] nessuna distinzione obiettiva è in generale possibile”.
Il passo è tratto dal capitolo intitolato “Morte dell’avanguardia: l’arte dopo il 1950” che Eric J. Hobsbawm ha dedicato ad una illuminante analisi del fenomeno artistico nel suo magistrale saggio “Il secolo breve”.
Suggerisco ai miei lettori l’incontro con lo straordinario lavoro al quale mi riferisco, per il suo immenso valore storiografico e perché è utilissimo per acuminare lo sguardo dell’uomo di oggi verso le nebbie del XX secolo al fine di prepararsi alle ben più oscure profondità del secolo attuale. Ed ora dedichiamoci a provocazioni meno accademiche ma non meno stimolanti …
Ricordo un tempo, ahimè lontanissimo, in cui mi recai in vacanza nell’incantata isola di Creta, allora era ancora un paradiso incontaminato ed io un giovane assetato di vacanza, incontri e cultura. Nell’occasione non potei fare a meno di visitare il museo di Iraklion, ero in compagnia di una fanciulla tanto splendida quanto curiosa d’arte che avevo eletto a guida. Mi soffermai, ricordo, ad osservare un gruppo di turisti tedeschi che, sufficientemente ustionati dal sole mediterraneo al quale non erano certo usi, si erano concessi una mezza giornata di tregua per visitare il meno pericoloso museo così da avere qualcosa da poter raccontare, al loro ritorno, a celebrazione dell’aspetto culturale delle proprie vacanze nel paese degli dei. Se ne stavano lì, immobili, a fissare una teca trasparente che conteneva reperti degli insediamenti cretesi risalenti all’epoca gloriosa di Festo e Cnosso. Annuivano coinvolti osservando tazze e suppellettili danneggiate dal tempo commentando tra loro e manifestando il proprio compiacimento di fronte a tanta bellezza. Il mio tedesco si limitava ai termini fondamentali dell’idealismo tedesco il cui studio andavo approfondendo in quegli anni universitari ed alle frasi necessarie ad abbordare le fanciulle teutoniche alla ricerca dell’avventura latina, ma, grazie alla mia guida che parlava il tedesco come l’italiano, potei cogliere la compresa partecipazione germanica a tanta sublime arte antica! Ma che arte? Quelli erano oggetti d’uso quotidiano che facevano mostra di loro in qualità di documenti della vita dell’epoca senza alcuna pretesa artistica. Potremmo mai immaginare una bottiglietta di plastica di oggi in una teca di cristallo attorno alla quale, fra 2000 anni, si radunerà una famiglia giapponese affascinata dalla sublime manifestazione artistica prodotta dal popolo di Raffaello?
Che possibilità avrei mai avuto, aldilà dei limiti del mio povero tedesco, di chiarire agli incolti germanici il fatto che non è sufficiente collocare un oggetto in una teca all’interno di un museo per renderlo un’opera d’arte? Oggi la cosa mi risulterebbe ancor più difficile visto che le cosiddette installazioni o performance assurgono al ruolo di opera d’arte! Lo confesso, l’dea di un uomo tutto nudo colorato di rosso che corre incontro alla propria compagna colorata di giallo lungo la camminata della muraglia cinese non riesco a percepirla come un’opera d’arte nonostante l’impegno di diversi amici critici di professione che hanno tentato di spezzare per me il pane sacro dell’essenza estetica. Mi occupo di critica d’arte da trent’anni ed ancora fatico a definire con questo termine numerose icone sacre e costosissime del mercato dell’arte contemporanea. Ma allora che fare? Partiamo da un punto certo, di solito è utile a mettere ordine: chi potrebbe mai contestare alla Gioconda leonardesca l’attributo di opera d’arte? Milioni di pellegrini hanno consumato ore di attesa per accodarsi nel sacro rito della visita al Louvre e consentirsi la breve visone del sorriso di Monna Lisa … certo, una volta di fronte al miracolo pittorico del 500 italiano, magari studiato anche con coinvolgimento nei libri di scuola, qualcuno, come è accaduto a me la mia prima volta al Louvre, è rimasto deluso: il dipinto non è molto grande, lo si può ammirare solo da una certa distanza, protetto da una lastra di vetro e con l’angoscia del solito giapponese che spinge e vuole fotografarlo fingendo di non sapere del divieto in tal senso. Ricordo bene la scena, la lenta fila che sosta a singhiozzo di fronte all’opera, l’espressione compresa davanti a tanta bellezza, le considerazioni profonde del genere “Leonardo è sempre Leonardo”… ora, trascurando il fatto che anche Carlo è sempre Carlo come Angela è sempre Angela, sarebbe più interessante informare l’osservatore che nove volte su dieci il dipinto esposto è una copia, di certo perfetta, ma una copia. Non è un dispetto dei francesi ma una necessaria prevenzione e difesa nei confronti del dipinto. Ma tornando all’originale: perché la Gioconda è un’opera d’arte? E se la caustica provocatoria affermazione del caro amico Hobsbawm denunciasse la reale impossibilità ad una chiara definizione di arte? E se fosse concettualmente contraddittoria l’idea di poter sclerotizzare il magico fluire dell’atto creativo in una definizione?
Quando un giorno … ascoltando la voce antica del silenzio echeggiare nella solitudine di una spiaggia deserta, osservando lontano lo spolverio splendido dell’alba sbocciare dall’orizzonte del mare; quando un giorno … riuscirai in quell’istante a ri-conoscere il profumo del sorgere del sole … allora non avrai bisogno che nessuno definisca per te il significato di opera d’arte. Ti consentirai di farti intridere da tanta bellezza, allungherai il braccio così che la tua mano possa accarezzare il velluto del luminio disteso sopra l’azzurro e se, in quel momento, l’altra tua mano potrà stringere un’altra mano, quella di chi condivide tanta bellezza … come non comprendere che amore ed arte sono i nomi che gli uomini assegnano all’assoluto quando scoprono di esserne visitati?
di Ferruccio Masci