"Un giorno lento" di Fabio ValerioArticoliRacconti brevi

Un giorno lento (puntata 21)

LA DISCONOSCIUTA

Gli disse di recarsi di corsa al fiume, il padre.

E lui, il figlio del capo, quello destinato poi a comandare, da grande, obbedì al volere del genitore.

Corse. Corse a quanto più non posso, verso le sponde del fiume. Le indicazioni erano abbastanza

chiare:

Lungo il Mississippi troverai un fagottino.

Nella culla c’è una bambina, del nostro popolo, una nostra figlia.

Portala al villaggio di bianchi, in fretta. Lì la consegnerai al parroco della chiesa, è una mia

conoscenza.

Gli dirai che è orfana di entrambe i genitori e che vorremmo se ne occupassero loro, che la

battezzassero da cristiana e che la allevassero proprio come se fosse una femmina bianca.

Così fece, o quasi.

Purtroppo Giuseppe conosceva già la storia della bambina nefasta, abbandonata sulle sponde del

fiume. Quella bambina che sembrava incarnare il male, già fin dal momento della nascita, momento

durante il quale la madre morì.

Figlia di un rapporto fedifrago. Madre nota e, purtroppo deceduta, e padre ignoto, almeno per i più.

Si pensava addirittura che il padre non fosse dello stesso villaggio, e questa era una vergogna.

Quando raggiunse il fiume, il piccolo Giuseppe ebbe un sussulto. Avvolta in uno straccio bianco,

all’interno di una cesta da alimenti, era adagiata una splendida piccola di pochi giorni, massimo un

mese. Gli occhi color caramello, le guance paffute e i pugni chiusi appoggiati sul mento, lo avevano

colpito come una freccia che trafigge il petto in pieno sterno. Un dolore quasi artificiale lo

attanagliò, con conseguente affanno e male alle tempie. Era bella, bellissima, dolce… Ma qualcosa

lo stava lacerando al solo guardarla.

Con un po’ di coraggio, e solo dopo aver bevuto e aver cercato di riprendersi, prese la bambina e la

portò lontana da quel luogo, in una grotta che solo lui conosceva.

Quanto tempo può sopravvivere un neonato senza latte materno? Questo si chiedeva il giovane

nativo.

Avrebbe aspettato la sua morte guardandola addormentarsi e esalare l’ultimo, debole e silenzioso

respiro?

Forse… Aveva una paura folle, sia nel disobbedire al padre sia nell’affrontare quella bambina, figlia

del demonio.

Sì, forse l’avrebbe fatto, se non fosse intervenuto un personaggio, un altro indios ma originario del

villaggio materno della piccola.

Seguì le orme di Giuseppe, dal fiume alla grotta, e era proprio alla ricerca della neonata, per cercare

di recuperarla, dopo che altri del suo villaggio l’abbandonarono.

“Tu non hai idea di chi sia il padre, vero?” disse il compaesano di Dena.

“No, ho solo avuto ordini da mio padre di recuperarla”, rispose il giovane.

“Dalla a me e dì a tuo padre che non l’hai trovata”.

Si inginocchiò e toccò la fronte della piccola, per sentire se aveva segni di febbre. Poi si mise in

ascolto del respiro.

“Non sta bene, ha bisogno di cure e latte materno, lasciala a me”, concluse e fece come per prendere

la cesta.

Ma Giuseppe prese il fagotto e corse, uscendo dalla buia caverna e si allontanò a grande velocità.

Non sapeva neanche lui se il terrore di averla vicino era più o meno forte rispetto al terrore del

padre, o ancora rispetto all’abbandonare la figlia del maligno in persona.

Corse per molto tempo, a più non posso, tenendo stretta sul suo petto la piccola in fasce, verso il suo

villaggio. Ma non poteva immaginare di essere seguito.

Lo strano personaggio, quello incontrato poco prima nella grotta, gli era alle calcagna e lo teneva

d’occhio, seguendolo come un lupo seguirebbe una sua preda, senza mollare un centimetro.

Era quasi a ridosso delle prime tende del suo villaggio quando lo strano personaggio, uscendo allo

scoperto, urlò con voce tonante: “Piccolo Giuseppe, fermo!”.

Conosceva il suo nome, seppure non fosse del suo accampamento. Si girò, tenendo in mano un

coltello che aveva tirato fuori dalla cintura. Avrebbe attaccato, se fosse stato necessario. Era

davvero un bravo ragazzo, buono, ma in quel caso la paura la stava facendo da padrona, il suo

sguardo sembrava quasi spiritato.

“Non vedi che ti sta lentamente deteriorando il senno? Lasciala a me, ne avrò cura. Ha bisogno di

latte materno.”

Il piccolo Giuseppe prese fiato. Una, due, tre volte, cercando di calmarsi e pensare. Disse che

sarebbe stato volere del padre, che la piccola fosse portata alla chiesa del villaggio dei bianchi, nel

deserto e, aggiunse, che qualcuno avrebbe dovuto chiedere al parroco di battezzarla da cristiana, e

che se ne sarebbero dovuti prendere cura loro.

Lo strano personaggio annuì. “Capisco – fece – ma prima bisogna tenerla in vita, nutrendola e

avendo cura di lei. Il suo destino si deve compiere”.

Giuseppe rimase impietrito. Non riusciva davvero a prendere alcuna decisione in merito. Era

sopraffatto. L’unica cosa che gli venne in mente fu quella di lasciare, all’interno della cesta, il suo

piccolo bastone multiuso che portava sempre dietro, sul quale incise la parola “Nukpana”, che

significava “male” nella sua lingua.

Lo sconosciuto prese la pargola dalle mani del ragazzo e si allontanò.

Il senso di offuscamento sparì, come anche quella sensazione di malessere e dolore fisico. “Che Dio

ci perdoni”, sussurrò. Fu quello l’ultimo momento in cui Giuseppe vide la sua, disconosciuta,

sorella.

di Fabio Valerio

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