"Un giorno lento" di Fabio ValerioArticoliRacconti brevi

Un giorno lento (puntata 9)

ZITTO E MUTO!

“Zitto e muto!”.

Era questo che mi sentivo ripetere in testa, ogni volta che incrociavo lo sguardo di un passante, o qualcuno mi rivolgeva la parola.

E io obbedivo, come se l’ordine venisse dall’alto, da un qualcuno che avesse più valenza dell’idea che avevo di me.

Forse era per questo motivo che non le avevo mai rivolto parola.

E non l’avevo rivolta mai a nessun altro in quel villaggio…

Davvero, ripensandoci, non avevo mai fatto vibrare la mia ugola davanti a nessuno, qui?

Mi sembrava un ricordo troppo confuso, come se si stesse raccontando la storia di un altro.

Dove ero stato, cosa avevo fatto, dove me ne andavo a dormire la notte?

Tutto era astratto, non propriamente finto, ma come fosse lontano secoli; eppure si trattava del posto dove, ancora, stavo vivendo.

Non potevo crederci.

Erano anni che non aprivo la bocca per emettere suoni!

Era proprio così: non avevo mai parlato con nessuno.

Provai imbarazzo, vergogna, vuoto e incredulità. Cosa stava succedendo? Perché non ci avevo mai riflettuto? Per quale motivo non ero riuscito mai a esprimermi?

Più che la realtà sembrava un sogno, uno di quei sogni che sembrano reali e dai quali non riesci a divincolarti, pur provandoci.

Mi diedi un pizzicotto, sentii dolore. Guardai, quindi, il riflesso della mia persona su una finestra. Sentii ancora più dolore nel cercare di decifrare quello che stava accadendo. Spalancai la bocca per vedere se tutto era al solito posto, mi toccai la gola, provai a emettere un suono; Nulla. Il viso mi si era fatto paonazzo, rosso sulle gote e sulla fronte, gli occhi strabuzzavano e sembravano voler venire via dalle orbite, le sopracciglia raggrinzite, così come la fronte, ma non c’era niente da fare. Non potevo parlare. Non potevo emettere suoni. Non potevo urlare.

“Zitto e muto!”, tuonò.

Il cuore dal petto pareva volesse risalire e una stretta allo stomaco mi fece piegare in due, quasi da riuscire a toccare con la testa a terra. Dal dolore fisico e mentale, mi rotolai a terra e, con le mani tra i capelli, cominciai a tirarmeli per cercare di soffrire a sufficienza, tanto da riuscire a emettere un lamento, un suono, un latrato. Ma niente.

Senza accorgermene mi ritrovai al centro di una stradina laterale, sdraiato a terra. Non sapevo più dove era casa mia, dove poteva essere il cappello che avevo fino a poco prima in testa, verso che direzione fosse la locanda di Dena.

Ero in preda al panico. Le spalle tendevano a stringersi, la schiena ad arcuarsi e, con lo sguardo diretto al sole, non sentivo neanche più il dolore fisico, tanta ormai l’abitudine. Era solo dolore psichico. Ero muto e avrei dovuto accettarlo.

Sarei stato, da quel momento, senza la capacità di poter scegliere con chi o se parlare. Sarei stato per sempre muto.

Proprio nel momento in cui stavo per realizzare che non avrei più avuto scelta, passò, a poca distanza da me, lo straniero misterioso.

Lo riconobbi guardando i suoi stivali e la camminata veloce. Da sdraiato supino, con il collo rivolto all’indietro e il mento in su, vidi le sue calzature sporche, ma nuove; le avrei riconosciute tra mille. Quel tacco, quella punta erano differenti da quelli dei nostri stivali; i suoi sembravano più comodi, di un materiale diverso dal nostro, sicuramente meno belli, ma forse più adatti al contesto di fango, cavalli e camminate spedite.

Da sdraiato alzai lo sguardo e incrociai il suo, che si voltò di scatto verso il punto in cui ero e, d’improvviso, come se non ci fossi, come se non avesse visto un uomo mezzo morente in mezzo a una strada, sputò nella mia direzione e proseguì la sua camminata.

Cioè, oltre a non avermi aiutato, mi sputò addosso; poi se ne andò così come era arrivato.

Mi alzai di scatto, quasi come a voler dare una lezione a quell’essere così maleducato e sfrontato. Non sentivo più il dolore di prima, ma ero pronto a usare le mani se ce ne fosse stato il bisogno. L’adrenalina scorreva nelle mie vene come fosse petrolio già incendiato, ero pronto a usare anche la pistola per quell’affronto, ma un dettaglio colpì la mia attenzione. Non avevo alcuno sputo addosso. Non c’era nulla. Avrebbe dovuto colpirmi almeno i capelli e una spalla, invece non avevo nulla. Che, preso dal delirio, non fosse stata un’allucinazione?

La giornata volgeva al termine e il vento, placatosi, lasciava il posto ad una fresca ma umida temperatura fastidiosa. Avrei dovuto rincasare, o andare a farmi un ultimo goccio.

di Fabio Valerio

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