Un giorno lento (puntata 29)
IL MIO NOME
Mi chiamavo Alfonso anche se all’anagrafe ero Alphonse, per via dei miei genitori, entrambi
francesi.
Ero nato nella provincia di Lione, appunto in Francia, ma da piccolo ci trasferimmo in Italia.
Vivemmo un po’ in Toscana, prima dalle parti di Viareggio, poi vicino Grosseto, mentre all’età di
dieci anni ci stabilimmo in Campania, in un paesino vicino Napoli. Fu lì che vissi la maggior parte
della mia vita, esattamente sette anni, prima di spostarmi, poi, per imparare un mestiere, sull’isola di
Procida.
Procida non è solo un’isola, è quasi un continente indipendente e, per quanto vicina alla costa, una
volta attraccati al porto, sembra di essere su un’altra terra. Tanto che, a ogni separazione, anche
breve, seguivano giorni di malinconia e depressione. Proprio come se ti portassero via l’amore della
tua vita, nel bel mezzo dell’innamoramento.
Vivere su quell’isola fu un privilegio, per via delle sue acque, dell’atmosfera, dell’accoglienza delle
persone, ma soprattutto perché lì conobbi la ragazza per la quale avrei dato via tutto.
I miei genitori erano persone benestanti. Ex nobili, direi, che però avevano scelto di fare un altro
tipo di vita, rispetto a quello cerimoniale da castello, serate di gala e vestiti pomposi. Erano di
mentalità umile, semplici ma con privilegi al pari delle media borghesia. La casa in cui abitavamo
era la nostra, così come avevamo delle piccole proprietà terriere in Francia, che rendevano un po’ di
guadagno dai frutti della lavorazione della terra, che ricevevamo dai contadini che la lavoravano,
grazie ai contratti a mezzadria.
Entrambe lavoravano, quando eravamo in Campania e io ero abbastanza cresciuto da badare a me
stesso. Mio padre era un impiegato in un’agenzia di assicurazione, mentre mia madre era una brava
parrucchiera e lavorava andando a casa delle signore.
Avrebbero potuto fare la vita da signorotti di castello, ma preferirono girare il mondo, soprattutto
prima della mia nascita, per poi stabilirsi nel loro paese preferito: l’Italia. Il paese della pizza, della
pasta, della musica e del sole.
Fu in questi anni di spensieratezza che conobbi Giovannino, il mio caro amico.
Abitava vicino casa mia, giusto un paio di giardini più in là. Sì, perché noi calcolavamo la distanza
tra luoghi in giardini, avendo, in quella zona, tutti un pezzetto di terra. Tra casa mia e la sua c’erano
due giardini, uno era della signora Adina, una simpatica vecchietta dalla quale andavo spesso,
perché circondata da molti gatti, mentre l’altro faceva parte di un casolare abbandonato da secoli.
Scavalcando le recinzioni, basse e malandate, tra noi e Adina e poi tra Adina e il casale
abbandonato, arrivavo al giardino di Giovannino.
Eravamo coetanei ma lui era minutino e secco secco. Vivace, con lo sguardo dolce e sempre,
davvero sempre sorridente. Lo ricordo così, sempre estremamente sorridente, tranne quando cadde
nel pozzo. Ci trovavamo nel giardino abbandonato e, come anche altre volte, ci eravamo soffermati
a cercare lucertole e topolini di campagna. Purtroppo, a causa di un mio stupido scherzo, inciampò e
andò a finire in un buco profondo, formatosi nel terreno, dove purtroppo morì. È stato da quel
giorno che non ho più parlato.
Ma ormai sono libero da quel sentimento di angoscia e senso di colpa. Giovannino mi ha perdonato.
Negli anni successivi fu difficile il mio vivere nel paese. Sentivo gli occhi di tutti addosso, anche se
nessuno sapeva che la colpa della morte del mio amico, era stata la mia. Più che altro mi sembrava
che tutti giudicassero il mio mutismo, soprattutto perché da più piccolo parlavo, ed ero anche
abbastanza rumoroso. Fu così che decisi, al compimento dei miei diciassette anni, di trasferirmi a
Procida, per imparare un mestiere e cambiare aria. Sentivo che avrebbe potuto farmi bene.
Sull’isola conobbi, da subito, un’accogliente famiglia locale, che, in cambio di lavoro manuale al
porto, mi offrì un riparo e un po’ di cibo che accettai volentieri, nonostante mia madre mi mandasse
il necessario per sopravvivere ogni settimana. Però il sapere di averlo guadagnato da me mi faceva
sentire bene. Dormivo in un ripostiglio, un ex pollaio rimesso a nuovo, nel terreno della famiglia
che mi ospitava, a metà distanza dalla loro casa e il porto. Potevo, quindi, godere di un riparo in
caso di pioggia e di compagnia, nel caso ne avessi voluta, andando verso il porto o verso la loro
casa. Faceva parte della famiglia anche la bella Nada.
Nada aveva sedici anni quando la conobbi. Era di una bellezza incredibile. Semplice ma complessa,
mediterranea e fresca ma anche con dei lati ombrosi e misteriosi. Era perfetta! Sì, lo era. Non avrei
neanche potuto pensare a un volto, a un corpo più perfetto di quello. Io adoravo soprattutto il suo
profilo. La fronte che, scendendo, compiva un piccolo arco prima di gettarsi lungo il naso all’insù,
un po’ a punta e, proprio sotto il naso, quelle due belle labbra. Poi il mento… Il mento era la
perfezione assoluta, tanto da non sapere neanche descriverlo. Io ne ero innamorato, ma non avevo
mai provato a dimostrarlo, finché fu lei, un giorno al porto, a baciarmi. E da lì conobbi per davvero
l’amore e la bellezza di condividere un sentimento con una persona per la quale daresti tutto, persino
la tua libertà, o la tua vita.
Purtroppo, dopo quattro anni di amore, Nada si ammalò. E successe proprio quando i miei genitori
mi richiamarono sulla terraferma, per decidere il da farsi sul mio futuro, considerando loro, ormai,
troppo stretta per me la vita da scaricatore al porto. Io non volevo andare, ma sapevo che se avessi
rifiutato, i miei avrebbero anche potuto tagliarmi i viveri, o addirittura togliermi l’eredità o parte di
essa. E sinceramente, ormai pensavo di passare la vita con Nada e qualche soldo non ci avrebbe
fatto male. Una volta a casa dei miei, mio padre mi propose di seguirlo in agenzia, per insegnarmi il
suo mestiere. Purtroppo tornai dal mio amore troppo tardi, quando ormai era morta di quella
maledetta malattia, che la portò via tra sofferenze e solitudine.
Da quel colpo non riuscii più a riprendermi, tanto da decidere, dopo qualche mese, non ancora
ventiduenne, di gettarmi dal dirupo, al carcere, che era posizionato in cima al monte, il punto più
alto dell’isola. Morii sul colpo, impattando con gli scogli, mentre litri di lacrime, durante il salto nel
vuoto, si libravano nell’aria, mescolandosi alla salsedine ed entrando a far parte di Procida, come
una firma, per sempre.
Di Fabio Valerio
@erofaalbivio