"Un giorno lento" di Fabio ValerioArticoliRacconti brevi

Un giorno lento (puntata 15)

LA COLPA

Forse pensava fosse stata mia la colpa.

Ma io cosa ne potevo sapere?

E poi mica ero ancora nato.

Ma tanto questo non cambia le cose. Io sono qui e lui se n’è andato.

Rinchiuso in questo posto buio, legato come un salame, intontito e senza la possibilità di urlare. Ma cosa avrò in bocca?

Le cinghie mi stringono i polsi, inizio a sentir formicolare le braccia e mi fa male la testa.

Le assi di legno scricchiolano sotto la spinta del mio corpo, pesante e immobile, come un peso morto. Sento il rosicchiare dei tarli che rimbomba nelle orecchie, accompagnato al tambureggiare del mal di testa che diventa sempre più ingombrante, assordante, insopportabile.

Questa catena al collo, poi, non la sopporto proprio; se allungo le gambe la sento tirare sulla gola.

Perché non mi ha ucciso direttamente? Mi avrebbe tolto questa sofferenza inutile. Tanto, non avendo scelto io di allontanarlo, cosa posso imparare da questo?

Gli voglio bene, ma in questo momento lo odio. Avrei voglia di prenderlo a pugni.

Avrei voglia…

Sento che l’attenzione cede il passo al sonno, i pensieri sono lenti, confusi. Sento il mio cuore battere sul pavimento, mi manca l’aria. C’è polvere, sto scomodo, gli occhi sono pesanti e continua a far male la testa.

Quanto tempo ha, un bambino, senza bere e mangiare, prima di morire?

La mamma sarà preoccupata, poverina.

Perché non mi ha mai detto la verità?

Forse avremmo potuto parlarne.

Alla fine gli voglio bene, anche se ora lo odio per questo che mi ha fatto.

Gli voglio bene. Sì, gliene voglio e mi viene da piangere.

Mio fratello, o per meglio dire, papà mi ha punito, per aver preso il suo posto.

Era così arrabbiato che non sono riuscito a dire una parola.

Ero in strada, nel vicolo vicino casa, a caccia di topi. E’ un gioco che mi piace fare, imitare i gatti. Loro sanno saltare in alto, si lanciano dal tetto senza paura, fiutano la preda e sono fulminei nell’acchiapparla, con gli artigli. Mi piacciono i gatti.

Peter invece sembrava un cane rabbioso, mentre mi urlava addosso la sua ira.

Ero nel vicolo quando mi ha preso, incappucciato e intontito con questo schifo che ho in bocca.

E dopo poco ero qui, in questo luogo buio e puzzolente, solo.

C’era solo una porticina, appena accostata, dalla quale filtrava un pò di luce, sufficiente giusto per vedere la sagoma e il profilo di Peter.

Urlava e sbraitava, mentre mi legava mani, piedi e collo.

Diceva che la colpa era la mia.

Che lui era mio padre e che, da quando ero nato, tutto era cambiato; la mamma era cambiata e lui non aveva più il suo amore.

Ma la mamma era buona.

Era lui che stava facendo il cattivo, con me. Che non avevo colpe. Che non avevo, di certo, scelto io di venire al mondo. E soprattutto che non avrei mai voluto che la mamma lo allontanasse da casa, perché era il mio fratellone e io gli volevo bene. Anche se adesso, forse, dovrei chiamarlo papà.

Papà, dove sei? Me lo sono chiesto così tante volte, prima di conoscere la verità. Papà, mi manchi, pensavo spesso. Anche se non l’avevo mai conosciuto, ma mi bastava vedere un bambino in compagnia del proprio padre per sentire un nodo alla gola.

Papà, vieni a salvarmi, anche se sei proprio tu che mi vuoi far morire. Papà, ti voglio bene…

Sento in lontananza le urla sgraziate di mia madre e io sono qui, a poca distanza da lei, che non posso risponderle e rassicurarla che sto bene. Ancora per poco, credo.

Eppure d’un tratto sento la presenza di una persona accanto a me. Un caldo abbraccio che mi tranquillizza. Non sarà mica Gesù o Dio in persona? Sto per morire?

“Ora sei libero, torna da tua madre e dalle un abbraccio da parte mia”, una voce si fa strada nella mia testa.

Sono sì intontito, ma libero di ogni catena. Attraverso di corsa la porticina e scendo le scale il più in fretta possibile. Cado una, due, tre volte, prima di raggiungere la strada. La luce del sole mi entra negli occhi che sento bruciare, la testa mi scoppia e ho sapore di veleno in bocca. Ma con tutto il fiato che ho in corpo urlo quanto più possibile il nome di mia madre. KATE! Esce dalla mia bocca e l’incubo sembra essere diventato già un ricordo lontano, quando sento le sue braccia e il sapore delle sue lacrime avvolgermi.

di Fabio Valerio

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