"Molfetta, città della pace" di Monia de CesareArticoliRacconti brevi

“Molfetta, citta della pace”

Sono nata e cresciuta nella bellissima citta di Molfetta, in provincia di Bari, l’Adriatico a due passi da casa. Come fa la gente che non ha non vive sul mare, per me è un mistero. Le nostre spiagge non hanno sabbia, ma noi molfettesi impariamo sin da piccoli a camminare sulle pietre scivolose. Certo, non mancano le cadute e le ferite, ma a noi non interessa, perché amiamo quella magnifica distesa blu.

La mia adolescenza non è stata idilliaca.

L’ho trascorsa con i litigi dei miei genitori, che a tutto pensavano, tranne che a me. Certe sere arrivavano anche a picchiarsi, ferocemente, tanto che io morivo dalla paura.

Una notte sembrava che volessero uccidersi a vicenda. Gridai aiuto, disperata, tanto forte che ce persi la voce per una settimana. Ma nessuno arrivò ad aiutarmi. Fui io a chiedere a papà di andare via per qualche giorno.

Avevo quattordici anni.

Mia madre cambiò la serratura la mattina successiva e mio padre rimase senza un tetto sulla testa.

A mia madre, venendole a mancare la sua valvola di sfogo preferita, iniziò ad odiare anche me.

Per anni dovetti subire battipanni, scope e scarpe di legno sulla mia pelle. Purtroppo neanche lei aveva avuto una vita facile.

Appena nata fu abbandonata sui gradini di un orfanotrofio. Aveva due anni quando venne adottata da una coppia che non poteva avere figli.

Due anni dopo il suo adorato papà morì e mia nonna la mandava da un collegio all’altro, pur di tenerla lontana da sé.

 Mio padre lo sposò solo per scappare da quella vita da vagabonda.

Ormai avevo diciotto anni ed ero venti centimetri più alta di lei, e l’odio verso di me lo vedevo ogni giorno nei suoi occhi. Un giorno, mentre mangiavamo pasta con le cime, che io detestavo, mia madre si alzò di scatto e cercò di accecarmi con la forchetta.

Non ero più al sicuro in quella casa, Inoltre chiudeva la porta a chiave così ero segregata in casa con il demonio in persona.

Non so più come cominciò la lite quella serra, lei aveva la scopa già in mano. Mi rifugiai nel piccolo bagno, temendo quella donna che avrebbe dovuto volermi bene. Ma io non ce la facevo più e appena lei sollevò la scopa, l’afferrai al volo e la bloccai. Volevo fracassarle la sua testa, che ormai non connetteva più. Ma dentro di me qualcosa era cambiata. Spaventata dai miei stessi pensieri le ordinai di aprire la porta.

Ormai l’odio era diventato reciproco e io non volevo macchiarmi le mani con il suo sangue.

Appena la porta si aprì, scappai via e andai a cercare mio padre per raccontargli cosa era successo. Andai a vivere con lui. Per il mio compleanno mi regalò una bellissima bicicletta, con la quale andavo con le mie amiche a gironzolare per la città.

Un pomeriggio estivo nessuna delle mie amiche aveva tempo per una passeggiata in bicicletta, così decisi di andarci da sola. Il mio tour cominciò come sempre dal lungomare per poi proseguire verso il pittoresco porto. Dopodiché un bel giro nell’entroterra della città, nelle infinite campagne dove l’ulivo regna sovrano. Lasciai il pulo per ultimo, come sempre pieno di gente appassionati di archeologia. Dopo un paio d’ore mi stancai e decisi di battere la ritirata.

Mi fermai ad un incrocio, o almeno così credevo. In lontananza vidi arrivare una macchina, così iniziai a pedalare per tornare a casa. Immagino che la macchina non fosse poi così tanto lontana, perché due secondi dopo mi investì.

Dalla bicicletta volai per aria e caddi prima sul parabrezza, infrangendolo, e poi di testa a terra.

Fu allora che la vidi, la santissima Maria. Era bellissima, nessuna statua le rende giustizia. Mi avvolse nella sua luce dorata e calda. Mi sorrideva amorevolmente, penso per tranquillizzarmi.

Fu in quel momento che capii che sarebbe andato tutto bene.

Lo sapevo e basta

Quando ripresi conoscenza ero appoggiata alla macchina, seduta a terra. Nella mano destra avevo cinque mila lire, nella sinistra i nuovi occhiali. Le uniche cose che avevo nel cestello della bicicletta. Come erano finite nelle mie mani?

Delle persone iniziarono a correre verso di me, a farmi domande se mi ricordavo il mio nome oppure semplicemente aiutandomi ad alzarmi. Dove erano le mie scarpe? Qualcuno andò a cercarle.

Poi vidi la mia bici. Era completamente piegata in due. Guardai le mie gambe. Neanche una goccia di sangue.

Come era possibile?

Un signore mi porse le mie scarpe. Le aveva trovate a duecento metri di distanza. L’impatto con la macchina era stato violentissimo, eppure io avevo solo tre graffietti, là dove avevo urtato il parabrezza. Indossai di nuovo le mie scarpe e piano piano iniziai a camminare. Tutto funzionava alla perfezione.

Il guidatore della macchina era pallido e tremava, mentre io ero calmissima. Lui sì che stava male. Voleva portarmi subito in ospedale.

Ma io stavo bene, non mi ero fatta niente. Ma lui insistette così tanto che lo accontentai. Arrivati in ospedale un dottore mi visitò e mi dichiarò sana come un pesce, ma mi avvisò che il giorno dopo che il giorno dopo avrei avuto dolori atroci dappertutto.

E fu davvero così. Quando mio padre vide la bicicletta sbiancò e mi chiese come era possibile che io fossi ancora tutta intera … è un segreto, gli risposi.

In effetti solo le persone a me più stette racconto l’accaduto, e questa è la prima volta che lo metto per iscritto, a distanza di venticinque anni.

Vivere un’esperienza tra la vita e la morte ti cambia davvero e ti lascia con un sacco di domande del tipo … perché proprio io? C’erano così tante altre persone più meritevoli di me da salvare, ma chi sono io per giudicare. Io so solo che quel giorno la Madonna mi ha salvato la vita.

Ci sono state ancore un paio di altre occasioni dove ho rischiato di rimanerci, ma lei non l’ho vista più, ma so che anche in quei casi sono stata miracolata grazie a Lei.

Come quella volta in Grecia.

Mi ero sdraiata come la sirenetta sulle pietre dell’Olimpo. Finita la foto non so perché invece di alzarmi mi girai e mi ritrovai con le gambe appese ad un burrone di centinaia di metri. Spaventata, iniziai a retrocedere usando le mani. Se invece mi fossi girata per sedermi, sarei precipitata nel burrone.

Anche in Germania è stata Lei a proteggermi. Mi trovavo a Francoforte sul Meno e stavo aspettando la metropolitana. Avevo oltrepassato la linea gialla, quando svenni. Invece di cadere sui binari ed essere travolta dal treno che stava già arrivando, caddi come una pera, prima in ginocchio e poi distesa sulla linea gialla.

Non voglio aprire un dibattito se c’è una vita dopo la morte, io ne sono sicura al cento per cento.

So anche che un giorno rivedrò mia madre, con la quale non ho avuto più contatti fino a quando ci ha lasciati dieci anni fa.

Di lei non si sa quando è nata e neanche quando è morta, furono i vicini di casa a chiamare i pompieri, lo sgradevole odore riempiva tutto il palazzo.

Nata sola, morta sola.

E di mezzo una vita che lei ha odiato fino alla fine, tanto che non si è mai voluta curare la sua schizofrenia. Chissà come sarebbe stato crescere in una famiglia amorevole, ma quando ci penso cerco di deviare i miei pensieri in posti più piacevoli.

Che senso ha pensarci ancora.

Molfetta, città della pace e a volte anche dei miracoli.

di Monia de Cesare

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