Lo stato e il suddito
“Che animale misterioso il suddito: ha bisogno che il potere gli imponga di fare ciò che
ritiene essere utile e giusto per lui con la precisa consapevolezza che non lo farebbe se
non obbligato … non solo, tenta poi di evitare lo stesso obbligo con la remota coscienza
della propria colpa e il malcelato desiderio di essere punito per espiare”. Quando l’amico
Gershom Freeman se ne uscì con questa affermazione, in verità era sera inoltrata, un po’
troppo tardi per le mie abitudini contadine, decisi così di lasciar cadere la provocazione
con l’intento di riprendere la questione il giorno successivo ma l’indomani non ebbi più
modo di approfondirla che, come spesso gli accade, all’alba se ne era già andato. Non mi
rimase che la solitudine ed il silenzio meditativo dei miei boschi a tenermi compagnia nel
corso delle mie conseguenti riflessioni al riguardo. In fondo devo ammettere che, ancora
una volta, la caustica lucidità del pensiero di Gershom mi trova d’accordo. Pensavo al
comportamento dello studente che fa di tutto per non studiare, già la cosa è paradossale
visto che l’espressione studente sta ad indicare colui che studia, pur reputando un buon
insegnante quello che lo obbliga a tale attività. Certo, magari lo maledice al momento, ma
in cuor suo lo apprezza e, nel tempo, finisce per essergli grato. Ne scaturisce l’ovvio e
assurdo interrogativo: perché lo studente non fa ciò che reputa corretto senza esigere che
qualcuno lo obblighi a farlo?
Mi torna alla mente la Critica del programma di Gotha, una lettera scritta da Marx alla
fazione Eisenach in riferimento al congresso socialdemocratico che si era tenuto in quella
città nel 1875. In essa è evidente l’implicita convinzione del filosofo che il credo comunista
fosse una naturale vocazione dell’essere umano. Certo, l’uomo comune cresciuto nella
cultura borghese non poteva rendersene conto e reclamava, in verità del tutto
inconsapevolmente, la dittatura del proletariato come pedagogo per essere pronto alla
fase finale del processo di liberazione. La conclusione del percorso avrebbe dovuto
portare, nel tempo, all’eliminazione dello stesso stato comunista poichè, una volta educato
adeguatamente il popolo, una volta depuratolo, per la verità attraverso metodi alquanto
discutibili, del peccato capitalistico, questo sarebbe stato consegnato ad un mondo libero
ed anarchico pronto per il paradiso in terra. Insomma, l’idea è che l’uomo debba generare
un feroce potere coercitivo che lo educhi ad essere ciò che è naturalmente se non corrotto
da un diverso potere che lui stesso ha creato con il medesimo intento. Non mi sembra il
caso di aprire un complesso contenzioso politico ma non posso che sottolineare i
macroscopici rimandi alla fase dello stato etico hegeliano, un mostro che si colloca oltre
ogni considerazione morale del soggetto con evidenti ammiccamenti al Leviatano di
Hobbes, per poi sublimarsi nella filosofia che consente allo stesso uomo di raggiungere,
ancora una volta, il suo paradiso in terra. Non ne ho più discusso con Gershom ma sono
certo che sorridendo avrebbe chiosato: “Ti rendi conto che si sostiene che l’uomo sia tanto
stupido da non essere felice naturalmente, da costruirsi una prigione con le tendine alle
finestre oltre le quali colloca un mostro feroce come il Leviatano, nelle forme hegeliane o
marxiane che siano, per insegnargli a divenire ciò che era prima di aver messo in atto
questa assurda farsa?” Già: e quando mai si è sentito di un cappone che si auto invita a
cena? Perchè questo dovrebbe essere il ruolo dello stato!
Un secondo aspetto interessante dell’affermazione di apertura sta nel desiderio dell’uomo
di essere punito per la colpa commessa, che sia un peccato in senso religioso o una
infrazione in senso legale poco cambia. Come non riandare al capolavoro di Dostoevskij,
Delitto e castigo, come non riconoscere il fragile e feroce animo di Raskol’nikov, i suoi
sensi di colpa, il suo anelito all’espiazione? Sappiamo che Dostoevskij è un genio e che
come tale ha saputo descrivere l’assurdo del quotidiano, ma questo non ci giustifica nel
replicarne la trama nel nostro tuttigiorni. D’altra parte da Adamo a Prometeo l’essere
umano ha generato miti tragici fondati sulla colpa e l’espiazione eroica! Possibile mai che
la nostra specie non sappia credere di meritarsi qualcosa di meglio?
Un’ulteriore sottolineatura va operata sulla frase di Gershom: a mio avviso, con precisa
determinazione, il mio caro e inquietante interlocutore non ha usato il termine uomo ma
quello di suddito. Io credo che intendesse affermare, con una sottile vena di ottimismo,
che il triste destino descritto nelle righe precedenti sia quello del suddito e non dell’uomo.
A questo punto la questione diviene: siamo capaci di pensarci come esseri umani e non
come sudditi? Stiamo procedendo lungo il cammino della coscienza della nostra
meravigliosa natura libera e creativa o stiamo scivolando lungo il piano inclinato che ci
renderà sudditi obbedienti? Il mio particolare osservatorio non può che rendermi ottimista:
il fatto stesso che questa rubrica sia entrata nella seconda centina, per la precisione
questo articolo è il numero 102, e che più persone la seguano, non necessariamente
condividendone sempre i contenuti, ma sempre riflettendo liberamente e
disinteressatamente, credo sia la prova più evidente e solare del desiderio di libero
pensiero che attraversa l’uomo di oggi, indipendentemente dal suo credo politico e
religioso. E che altro sarà mai un “pensiero altro” se non quello di un essere umano che si
interroga sugli eterni perché, sul fine ultimo della nostra esistenza che è la ricerca della
felicità e della bellezza?
di Ferruccio Masci