Le parole del silenzio
“La voce della vita in me non può raggiungere l’orecchio della vita in te” recita un aforisma di Khalil Gibran. Questo significa che è impossibile una vera forma di comunicazione? Proviamo a chiarire con un esempio: immaginiamo due giovani mamme con i rispettivi neonati nel carrozzino mentre passeggiano per la città. Passando davanti ad una casa di un particolare colore rosa, la prima mamma comunica col proprio piccolo dicendo: “Guarda Filippo che bella casa rosa” Il piccolo che sta imparando a collegare le informazioni che gli arrivano dai suoi occhi con i misteriosi suoni che emette la bocca della mamma, capisce che l’impulso X che ha registrato il suo cervello la mamma lo chiama rosa e che, per intendersi con lei, sarà utile collegare il suono “rosa” a quell’impulso. La seconda mamma conferma il giudizio dell’amica e ribadisce alla propria bambina che quella casa è davvero colorata di un graziosissimo rosa.
La piccola Antonella, anch’essa alle prese con le parole, poiché i suoi occhi le hanno segnalato una informazione non identica a quella di Filippo, caso plausibile, nessun genitore è motivato a verificare se le percezioni ottiche dei neonati sono identiche e comunque non ne avrebbe la possibilità, conclude che l’impulso Y che ha raggiunto il suo cervello, nella magica sonorità materna si trasforma in “rosa” ed anche lei accetta il misterioso collegamento decidendo che l’impulso Y è opportuno identificarlo con quel suono.
Bene, con un acrobatico salto temporale arriviamo a venti anni dopo: Filippo regala alla giovane Antonella, che tanto gli fa battere il cuore, un grazioso oggetto rosa convinto che quel colore corrisponda al proprio impulso X e la ragazza gli sorride grata di aver ricevuto il delicato dono dal colore rosa che lei ama tanto, proprio perché la collega all’impulso Y.
Possiamo affermare che davvero i due giovani stiano condividendo quel momento? Ma questo aspetto è addirittura trascurabile se, voyeuristicamente, provassimo ad ascoltare il dialogo che segue quando Filippo confessa ad Antonella il suo amore ed Antonella dichiara di ricambiarlo: possiamo affermare che davvero i due ragazzi stiano comprendendo di cosa stia parlando l’altro? E considerate che stanno parlando del sentimento più intenso di cui un essere umano è capace. Certo, Khalil Gibran aveva intuito il disperato silenzio in cui ci imprigiona la parola, ed è per questo che completo la citazione iniziale con la seconda parte dell’aforisma: “parliamoci, tuttavia: per non sentirci soli”.
Ancora una volta una sintesi estrema nelle righe nietzscheane: “L’incomunicabilità è la più terribile delle solitudini”! Possiamo anche raccogliere l’esortazione di Gibram e fingere di non essere soli o almeno sentirci meno soli conversando, ma come negare che quando pronunciamo la parola luna, come afferma Jorge Luis Borges, la parola è una sola ma la luna del Bengala non è la stessa dello Yemen! Sempre Borges altrove ribadisce il concetto rimarcando che, cito a memoria, la luna che vediamo oggi non è quella che vide il primo Adamo. Non è marginale sottolineare che tutte le lune indicate sono la visione di un osservatore che cambia e mai la luna stessa. Insomma, ogni realtà diviene qualcosa di differente in ogni soggetto che la esperisce per poi riassemblarsi convenzionalmente in un termine comune a tutti, traducibile in ogni idioma, ma che poco ha a che fare con l’esperienza individuale. La questione è già centrale nella filosofia di Gorgia che sintetizza genialmente: “L’essere non è, se fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conosciuto non sarebbe comunicabile” eppure lo stesso grande sofista non ha potuto fare altro che ricorrere alla parola per denunciarne la più assoluta inefficacia comunicativa. Nell’immensa solitudine muta che abitiamo non ci resta che il silenzio rumoroso delle parole “per non sentirci soli” … o fingere di non esserlo.
Con un’ulteriore capriola temporale di più di due millenni arriviamo ai giorni nostri. Eccoci qui, inghiottiti dal vortice della frenesia comunicativa, così che ogni gesto, ogni accadimento, perde di senso e di “realtà” se non viene, che paradosso, trasformato in “virtuale” in forma di messaggio o immagine su uno degli innumerevoli canali social. Il tema della comunicazione assume, in questo modo, un senso profondamente diverso da quello sul quale abbiamo tentato un’analisi nella prima parte di questo scritto. Credo che, con un pizzico di autoironia, potremmo affermare che il tema della comunicazione, o meglio, della non comunicazione, si possa oggi collocare tra due estremi. Il primo lo descriviamo così: “Dio mio, mi si è scaricato il cellulare!” Infatti, privato diquel mezzo chi si saprebbe più rivolgere “umanamente ad un altro umano”? L’estremo opposto è rappresentato dal continuo sterile chiacchiericcio di chi parla e twiitta e messaggia per nascondere a se stesso che non ha assolutamente nulla da dire. Già, perché le parole, lo abbiamo ampiamente chiarito, sono sufficienti per la “comunicazione funzionale”, ma se si ha davvero qualcosa da dire … ma solo se la si ha!
Se è vero che l’uomo ha cominciato il proprio viaggio nella conquista coscienziale di sé acquisendo consapevolezza del proprio pensiero nell’istante in cui lo ha colto e tradotto in parola forse oggi stiamo chiudendo il cerchio. Svuotare di senso la parola è nullificare l’essere umano e forse il pressapochismo ignorante del linguaggio che impera ad ogni livello ne è l’espressione più inconfutabile. Per non parlare della supponenza arrogante di chi non comprende la gravità del problema e lo snobba, quasi che evidenziarlo fosse uno snobistico vezzo da intellettuale, con espressioni come “va bé, dai, ci siamo capiti”.Credo possa essere un’ottima chiusa un passo della giovane e malinconica poetessa thailandese Lang Leav: “Raccontami ancora una volta di quella storia, quella in cui il mondo finisce così come è iniziato, con un ragazzo che ama una ragazza e una ragazza che ama un ragazzo. E lei è sorda e lui è cieco, e lui le dice all’infinito che la ama e lei gli scrive ogni giorno, senza mai sentire la sua risposta.”
di Ferruccio Masci