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La prima mafia siciliana

Breve premessa relativa al contesto storico.

Il Regno di Sicilia fu uno stato esistito fra il 1735 e il 1816 corrispondente all’attuale territorio della Regione Siciliana. Esso era diviso in 23 distretti. Nel 1816 il Regno di Sicilia e il Regno di Napoli si fusero in un unico stato denominato Regno delle due Sicilie, corrispondente grossomodo a tutta l’Italia meridionale più la regione Abruzzo e una piccola parte della regione Lazio. Esso era suddiviso in 22 province, sette delle quali si trovavano in Sicilia: Palermo, Trapani, Girgenti (l’attuale Agrigento), Caltanissetta, Messina, Catania e Siracusa. Il 12 gennaio del 1848 scoppiò in Sicilia una rivoluzione per ottenere l’indipendenza dell’isola dal Regno; il 23 gennaio venne proclamato il nuovo Stato Siciliano. Il 19 marzo 1849 il Regno di Napoli attaccò la Sicilia per iniziare la riconquista del nuovo Stato. Il 15 maggio la Sicilia si arrese e tornò a far parte del Regno delle due Sicilie.

Il 3 e 4 aprile 1860 scoppiò a Palermo un’altra rivolta che fu subito sedata dalle truppe del Regno.L’11 maggio 1860 avvenne a Marsala, in provincia di Trapani, lo sbarco dei Mille. A questa spedizione, comandata da Giuseppe Garibaldi, si aggiunsero immediatamente migliaia di rivoltosi siciliani e in breve tempo l’isola venne conquistata. Fu instaurata la dittatura di Garibaldi in nome della Casa Reale dei Savoia, in attesa del completamento dell’unità d’Italia.Dal 1861 la Sicilia è una regione dello Stato Italiano. Le sue province divennero nove nel 1927 con la creazione di quelle di Enna (principalmente dalla provincia di Caltanissetta) e di Ragusa (dividendo la provincia di Siracusa in due). Gabellotti e briganti.

Nel 1812 il Regno di Sicilia vara la nuova Costituzione che sancisce la fine del feudalesimo: i nobili non avevano più il diritto di amministrare la giustizia civile e penale all’interno delle loro terre, essa diventava prerogativa esclusiva dello Stato. Perso il loro “potere amministrativo” sul feudo, che diventava così per loro una mera attività imprenditoriale dalla quale trarre profitto, molti nobili decisero di trasferirsi dalle campagne alle città. Gli immensi feudi, presenti soprattutto nelle aree delle odierne province di Palermo, Agrigento e Caltanissetta, vennero divisi in più lotti e dati in affitto agli ex capitani delle guardie armate (la polizia se vogliamo) di quello che era il “piccolo regno” dei baroni dentro lo stato siciliano. Il termine usato per indicare questi affittuari era “gabellotti”, poiché questo tipo di affitto dei terreni veniva sovente chiamato gabella. Molti gabellotti trovarono poi più conveniente suddividere ulteriormente in più “masserie” il loro lotto di feudo, tenerne una sola per loro e subaffittare le altre direttamente ai contadini. Mentre quindi il nobile disinteressato riscuoteva l’affitto lontano dalla sua terra, il gabellotto ne traeva profitto in loco. Il brigantaggio era in quel periodo un fenomeno criminale molto diffuso, non solo in Sicilia, ma in tutta la penisola italiana. Bande di delinquenti derubavano di continuo le aziende agricole dei loro prodotti e del bestiame oppure assalivano i viaggiatori lungo il loro cammino, qualcuna di esse si spingeva fino al sequestro di persona.

La grande crisi dell’agricoltura siciliana negli anni 1825 e 1826 esasperò enormemente tale fenomeno: numerosi disperati andavano a infoltire le bande di briganti nell’isola e lo Stato non era affatto capace di rendere giustizia a tutti quegli agricoltori vittime dei continui furti. Parallelamente al fenomeno del brigantaggio bisogna comprendere quella che era la realtà del feudo: i feudi erano territori molto grandi nella loro interezza, tutti misuravano diversi chilometri quadrati di estensione e alcuni di essi andavano ben oltre i 10km². Si trattava di micro-società con una loro vita autonoma all’interno dell’apparato sociale siciliano. I contadini e gli imprenditori agricoli vivevano all’interno del feudo la maggior parte della loro esistenza e come in tutte le società accadevano litigi, controversie, questioni legali che richiedevano giustizia. Anche in questo caso la lenta burocrazia del Governo Siciliano e le sue leggi non riuscivano a garantire la giustizia che gli abitanti del feudo chiedevano rivolgendosi alle autorità. Fu in questa situazione di “lontananza” dello Stato nei confronti dei suoi cittadini che i gabellotti presero la decisione di tornare arbitrariamente alla “giustizia di una volta” esercitata dai baroni prima della nuova costituzione. Vennero assoldate delle guardie private a proteggere i campi contro le scorrerie dei briganti, tali guardie giravano a cavallo armate ed erano chiamate “campieri”. Il gabellotto si impegnava a proteggere i terreni in subaffitto attraverso i suoi campieri dietro il pagamento di una somma in denaro detta appunto “protezione”. Il gabellotto, grazie al prestigio della sua figura di “protettore” divenne anche il giudice delle controversie e dei litigi fra gli abitanti del feudo, che si recavano da lui piuttosto che dalla polizia per avere velocemente sia le sentenze che la giustizia; senza giudici ne avvocati, senza burocrazia ne cavilli legali nel mezzo. Questo scenario si diffuse rapidamente in quasi tutti i feudi delle province siciliane e perdurò per più di un secolo. Paradossalmente quindi i gabellotti trassero un ampio profitto dalla crisi agricola, riuscendo alcuni di essi perfino ad acquistare e divenire proprietari di quella porzione di feudo – il lotto dato loro in gestione dai baroni – che prima amministravano in affitto. Se in questa prima descrizione della situazione sociale del tempo non si può identificare alcuna nuova forma di associazione criminale vera e propria è tuttavia a causa di tale situazione che si crearono due colonne portanti del modo di agire della mafia:

1) Il privato che si sostituisce arbitrariamente allo Stato nell’amministrazione della giustizia. La sua giustizia, ricavata dalla sua mentalità e dalla sua morale invece che da un codice di leggi scritte.

2) La “protezione” come attività illegale a scopo di lucro. Si può ragionevolmente ipotizzare che qualche banda di briganti prese come esempio da imitare il ruolo dei campieri e trovò più conveniente imporre agli agricoltori la sua protezione contro i furti che i suoi stessi membri avrebbero altrimenti compiuto; in una parola: estorsione.

L’ipotesi della nascita dell’attività estortiva esercitata attraverso la protezione può trovare fondamento in un documento del 1837 redatto dal Procuratore Generale di Trapani (Pietro Calà Ulloa), il quale scriveva ai suoi superiori a Napoli di come nelle campagne della provincia si potesse riscontrare il fenomeno di una protezione illegale nei confronti dell’abigeato; a chi non pagava veniva rubato il bestiame. Il Procuratore segnalava l’impressione che chi commettesse tali illegalità godesse a sua volta della protezione di funzionari pubblici che venivano presumibilmente corrotti per garantire l’impunità. Tale documento è il primo atto ufficiale che alluda a una cosca mafiosa. Si potrebbe in definitiva pensare che qualche brigante “rubò” dai feudi della provincia di Palermo l’idea e il meccanismo per esportarlo dove esso era poco presente, in una provincia (Trapani) dove i feudi erano ben pochi, applicandolo alla sua maniera ben più criminosa contro gli allevatori dei terreni di quella zona.

Antonino Giammona

Il sistema della protezione non ci mise troppo tempo ad espandersi lungo le campagne e arrivare fino alla città di Palermo, ed è nei dintorni del capoluogo siciliano che la maggioranza degli studiosi identifica il luogo degli inizi della mafia vera e propria. Gli studiosi concordano che tali inizi non debbano essere cercati nell’interno della Sicilia, più arretrato e legato a un’economia basata sul latifondo e sulla coltivazione estensiva dei cereali. Al contrario, il bacino di coltura della mafia fu la dinamica realtà della campagna circostante Palermo, in cui il grano aveva lasciato il posto alla ben più redditizia produzione di limoni e di altri agrumi, esportati in grandissime quantità in Inghilterra e negli Stati Uniti. In quest’area ricca e ben sviluppata, integrata a pieno titolo nel sistema capitalistico globale, un uomo di nome Antonino Giammona riuscì nel tempo a creare un’organizzazione di criminali con caratteristiche sufficienti a identificare il ‘’fenomeno Mafia’’:

• aggregazione di più criminali all’interno di una setta gestita gerarchicamente; l’affiliazione a tale setta avviene tramite un rito;

• gestione di più affari illeciti contemporaneamente prolungata nel tempo;

• connessioni con il potere politico o l’autorità in generale.

Antonino Giammona nasce nel 1820 nel villaggio Passo di Rigano, che attualmente è un quartiere di Palermo ma fino ai primi anni ’60 era una borgata di campagna del capoluogo siciliano.

Figlio di contadini poverissimi e povero contadino egli stesso, iniziò la sua carriera criminale con il furto di bestiame. Dopo aver partecipato alla rivoluzione del 1848 acquistò una certa notorietà fra la gente e fu presumibilmente subito dopo la rivoluzione che Giammona organizzò un gruppo malavitoso che iniziò a ricattare i padroni degli agrumeti e a estorcere denaro: se le somme richieste non fossero state corrisposte, se la “protezione” non fosse stata accettata, i frutti sarebbero stati rubati e gli alberi danneggiati. A volte, grazie ai loro ricatti questi malfattori riuscivano addirittura a impossessarsi del terreno stesso. Contemporaneamente il gruppo corrompeva alcuni funzionari di polizia, i quali non reagivano alle denunce delle vittime. Le attività di Giammona e dei suoi complici prendevano forma all’interno di una “setta religiosa” conosciuta col nome di “Terziari di San Francesco”, ufficialmente gestita da un tale Frà Rosario che era oltretutto il cappellano del carcere.Molti criminali videro la possibilità di aumentare i loro proventi illeciti dal 1862: con la definitiva elezione della Lira a unica moneta del Regno iniziò a circolare anche in Sicilia la carta-moneta, più facile da falsificare rispetto al metallo, e non mancò certo a uomini come Antonino Giammona di approfittare della nuova possibilità di trarre profitto illegalmente. Falsificazione del denaro, estorsione e imposizione di guardiania, corruzione della autorità… furono queste le principali attività che permisero a diversi gruppi criminali nati nell’area di Palermo nella seconda metà del XIX secolo di divenire la prima mafia siciliana.

Non sappiamo se Giammona possa essere considerato il primo capo-mafia vero e proprio, sicuramente fu uno dei primi. Sta di fatto che fu capace anche di controllare esponenti politici del tempo garantendo loro i voti necessari per essere eletti. Sappiamo che il ricchissimo e notissimo armatore Florio ripagava con la sua “influente amicizia” la protezione che Giammona gli forniva. E ritroviamo il Giammona stesso nel 1860 in un ruolo istituzionale: da povero contadino a capitano della guardia nazionale; nonché proprietario di terreni, di immobili e di un’azienda di pastorizia. È molto probabile che il barone Niccolò Turrisi Colonna si riferisse proprio al gruppo criminale di Giammona quando nel 1864 scrisse un volume dedicato alla Pubblica Sicurezza in Sicilia. Nel suo resoconto egli denunciava l’esistenza di una ‘’setta di ladri’’ che si era strutturata una ventina di anni prima, la quale traeva forza da “l’umiltà” (termine spesso pronunciato “umirtà” dai siciliani e che venne in seguito italianizzato in “omertà”) dei suoi membri, che erano completamenti devoti alla causa della setta e non la tradivano per alcuna ragione. Tale setta da un lato “offriva” protezione ai proprietari terrieri, dall’altro la riceveva da alcuni politici e da forze di polizia che spesso chiudevano non uno ma entrambi gli occhi.Nel 1875 uno stimato chirurgo di nome Gaspare Galati lasciò la Sicilia per trasferirsi a Napoli. Egli era stato proprietario di un’azienda agricola che produceva limoni nel villaggio Uditore, nei paraggi di Palermo. Arrivato a Napoli Galati inviò un memorandum al Ministero degli Interni attraverso il quale segnalava di aver inutilmente denunciato in passato di essere stato vittima di una serie di azioni intimidatorie compiute da un gruppo di delinquenti che faceva capo ad Antonino Giammona, il quale veniva accusato di essere il mandante o l’esecutore di almeno 23 omicidi, due dei quali avevano come vittime dipendenti del Galati stesso. Molti di questi omicidi furono invece commessi contro altri malavitosi che provarono a ricattare gli imprenditori agricoli che pagavano già la protezione a Giammona; la soluzione contro la “concorrenza” nel suo territorio era evidentemente la morte. Il rapporto di Galati mise in moto un’inchiesta condotta dal questore di Palermo, che ottenne un’importante informazione: tutti coloro che entravano a far parte della misteriosa organizzazione segreta, al momento del loro ingresso ufficiale nel gruppo, si sottoponevano a un preciso rito di iniziazione. Dopo che una goccia del loro sangue era stata spalmata su un santino, l’immagine sacra veniva bruciata e ridotta in cenere, a simboleggiare la sorte che avrebbe atteso chiunque avesse violato il giuramento appena pronunciato.

di Francesco Pino

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immagine dal sito Uominiecani.com

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