“Ivy” di Susie Yang
La Storia in Rete di questo mese è… leggermente diversa dal solito. Si tratta di un esordio letterario, ma avvenuto in grande stile oltreoceano, di cui questa recensione prenderà in esame la traduzione italiana pubblicata da Neri Pozza Editore. Il romanzo in questione è “Ivy” di Susie Yang, perfetto esempio di quant’è importante che la classificazione di genere e, soprattutto, le premesse narrative siano coerenti rispetto alla narrazione. Sia chiaro, tale insegnamento viene trasmesso per contrasto, in quanto nel romanzo non vi è traccia dell’auspicata congruenza.
Trama e aspettative tradite
L’incipit dell’opera è letteralmente: «Ivy Lin era una ladra ma a vederla non si sarebbe detto», e il romanzo mi è stato segnalato come un thriller ricco di azione. Un accoppiamento del genere non può non evocare atmosfere degne della saga cinematografica Ocean’s e far presagire una protagonista intelligente, spericolata, disposta a tutto per ottenere i tesori che anela senza pagarne il prezzo. In un’immagine: l’immortale Fujiko Mine che sfreccia sulla sua motocicletta rosso rubino.
Ciò che il lettore si trova davanti, invece, è la cronaca dei primi trenta anni di vita di una qualunque immigrata cinese negli Stati Uniti, la quale attraversa la fine del Millennio cercando di inserirsi nella buona società e di liberarsi dei vincoli educativi della famiglia e della cultura del Paese d’origine, che avverte come particolarmente retrogradi e restrittivi.
I furti appaiono soltanto nella primissima parte della storia, quando l’adolescente viene introdotta all’arte del taccheggio dalla nonna, e vi è soltanto un fugace richiamo nella seconda metà. Anche volendo intendere “l’essere ladra” in senso figurato, non vi è traccia di ruberie nemmeno a livello concettuale o sentimentale, a meno che non si consideri l’ipocrisia come auto sottrazione di dignità, tirando però vigorosamente per i capelli il concetto.
Ipocrisia, perché il succo della trama è un compassato intreccio di relazioni sociali fasulle, basate sulla convenienza e sul rispetto formale delle tradizioni, presentate con estrema dovizia di particolari. Tale scelta di stesura, in accoppiata con l’assoluta prevedibilità dei colpi di scena, compreso quello che avrebbe dovuto donare lo sfondo thriller all’opera, genera una narrazione stanca in partenza, in cui ci si orienta con la stessa fatica che avverte Ivy durante la strada per l’autodeterminazione.
Personaggi
Ivy aspira a essere un personaggio complesso, diviso, teso tra istinti e desideri contrastanti, ingannevole e ingannatrice, ma i suoi comportamenti risultano nel complesso estremamente passivi e prevedibili. Non fa che mettere in atto i comportamenti della nonna e rivivere inadeguatezze e crisi di coscienza della madre, pur rapportandole a fatti e attori della sua esistenza. Per quanto i rimandi al destino e alle sue accezioni nella cultura cinese giustifichino il nettissimo instradamento su binari della vicenda, anch’essi sono narrativamente deboli, perché vengono condensati nelle pagine che introducono lo scioglimento della vicenda. Insomma, si doveva fare “lo spiegone” per chiudere tutto e dare un senso al finale, come quando è finito il budget per la stagione di una serie TV.
Anzi, di una soap opera. Format perfetto per i personaggi minori, visto quanto ricalcano i rispettivi stereotipi. Alcuni esempi? Andrea è la classica spalla un po’ svampita ma inesorabilmente buona della protagonista tormentata che si merita tutto il bene del mondo e infine esso gli piove addosso quasi per caso; gli Speyer sono la classica famiglia americana agiata e perbene, che si regge di rituali, vizi nascosti e omissioni; Roux Roman è il classico immigrato arricchito e rozzo dall’infanzia difficile, che conserva sotto la corazza una parvenza di sentimenti puri. Primo partner sessuale della protagonista, ritornerà nell’età adulta con l’espediente più inverosimile e al contempo più banale possibile.
Il simbolo della scontatezza delle caratterizzazioni è però Gideon, promesso sposo di Ivy. Si tratta di un personaggio concepito con l’intenzione di distruggere il mito del rampollo perfetto, ma ciò avviene fin da subito e troppo palesemente, senza che il lettore abbia minimamente il tempo di percepirlo ammantato di eroico mistero come fa la protagonista. Quando viene infine rivelato il suo segreto, Pulcinella lo ha già cantato a tutta la città, spalleggiato da Povia.
I pregi: ambientazione, descrizioni, stile
Fino a questo punto il romanzo ne sta uscendo con le ossa rotte, ma è doveroso evidenziarne anche gli aspetti positivi. La scrittura di Yang è decisamente di buon livello, ricca di dettagli e di soluzioni descrittive permeate di sinestesia, che comportano un altro grado di vividezza delle immagini e d’immedesimazione nelle situazioni. La quotidianità della famiglia Speyer durante l’arco narrativo centrale è un raro esempio di cura dell’ambientazione, non soltanto in termini di ambienti, ma anche di comportamenti, consuetudini, elementi interattivi impliciti. Un plauso va anche alle scene in cui vengono rappresentati i rapporti carnali, per la loro capacità di risultare vivide e accurate senza scadere né nella volgarità, né in un pomposo eccesso di dettagli.
Tuttavia, il fatto che gli unici pregi dell’opera sono riconducibili alla sua componente più meramente tecnica è problematico per Yang. Questo perché un testo del genere, visto anche il respiro internazionale della pubblicazione, ha sicuramente subito un lungo e profondo editing prima di vedere la luce. È dunque probabile, o è quantomeno lecito supporre, che l’indiscutibile qualità evocativa di alcuni passaggi, a discapito di una storia raffazzonata e non particolarmente originale, sia da attribuire alla bravura dell’editor, più che a quella della penna che ha redatto il manoscritto originale. In ogni caso, questa impressione può trovare un riscontro certo soltanto tra gli addetti ai lavori.
Al di là dei giudizi di merito, a livello commerciale un romanzo del genere è una scommessa editoriale vinta in partenza, in quanto possiede tutti gli ingredienti per piacere al lettore americano medio. Tratta di scottanti temi della sua attualità, come l’integrazione degli immigrati e la concorrenza sempre più sleale per accaparrarsi un posto al sole in società, descrive abitudini, luoghi e dinamiche in cui ogni benestante o aspirante tale può identificarsi facilmente. Ma soprattutto contrappone sapientemente l’ostentazione quasi barocca di sapori, odori e colori lussuosi al grigiore e alla freddezza dei moti dell’animo della protagonista, riuscendo così a generare grandi aspettative in termini di profondità e di ricercatezza. Tuttavia, con lo scorrere dei capitoli la penuria di pathos, azione e brillantezza dei personaggi rendono il tutto sempre più ovattato e stantio, come le ripetute adulazioni di un ruffiano.
In conclusione, “Ivy” di Susie Yang è un romanzo ben scritto con una trama mediocre, se non scarsa. Una lettura adatta a pletore di sessantenni snob che si ritrovano al country club per dire la loro sui “giovani d’oggi”, mentre sorseggiano una tazza di thè con il mignolino alzato e attendono con ansia l’annuncio di serie TV tratta dal libro. Una roba alla Beautiful, ma con la protagonista cinese. E vissero tutti felici e al passo con i tempi.
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Marco Ferreri
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