In principio era il due
“Esistono molti scritti pieni di spirito caustico in cui si nega l’esistenza di Dio; ma nessun ateo, a quanto mi risulta, ha mai confutato con buone prove l’esistenza del diavolo” è la provocatoria affermazione di Heinrich von Kleist, grande scrittore tedesco vissuto a cavallo tra 700 e 800. Per comprendere a fondo la centralità del ruolo del diavolo credo sia opportuno muovere i primi passi tornando al primo verso della Teogonia di Esiodo: “In principio era il Kaos”. Con queste semplici e misteriose parole nel VII secolo a. C. ha inizio la più nota opera esiodea sull’origine del mondo. So bene quanto sia diffusa l’abitudine di considerare la mitologia come la raccolta di ingenue fantasie operata da antiche e semplici civiltà, narrazione che, alla luce delle più recenti scoperte scientifiche, perde la valenza gnoseologica attribuitale nei secoli arcaici: nulla di più falso! La verità profonda contenuta nell’affermazione di Esiodo è ancora e per sempre a fondamento del nostro pensiero, proviamo a capire. Intanto chiariamo che la traduzione del termine Kaos con disordine è assolutamente errata: per kaos va intesa l’unità dell’essere assoluto prima della separazione del particolare. Vedo di essere più esplicito: se per kaos intendiamo il principio, l’arché, questi non potrebbe essere solo disordine, infatti il concetto stesso di disordine presuppone necessariamente la sua antitesi, l’ordine, tanto che “il principio non sarebbe uno ma due”. É solo nel momento in cui l’unità dell’Essere viene frantumata per trasformarsi in un insieme di particolari che compare l’antitesi tra ordine e disordine o, come descritto altrove, tra il buio e la luce, tra la vita e la morte, tra il bene ed il male. Credo sia ora abbastanza evidente quanto l’affermazione iniziale, apparentemente elementare, riveli, al contrario, una valenza filosofica immensa, già, perché se in principio era l’unità del tutto indistinto chi e come ha originato le distinzioni? Come e chi è il “creatore di ogni particolare”? Il reificatore dell’Essere eterno ed immutabile, immobile ed infinito di parmenidea memoria?
Il tema è estremamente complesso e non è certo possibile sviscerarlo in poche righe ma credo sia abbastanza evidente che, prima dell’istante aurorale in cui un uomo ha scoperto di essere capace al pensiero, non esisteva differenza tra il soggetto pensante e l’oggetto pensato, potremmo cominciare da questo dato la nostra riflessione ma, come sempre, mi piace ancor di più suggerire una disorientante provocazione, insomma, osservare il tutto con “uno sguardo altro”. È interessante, a questo scopo, riflettere intorno all’etimo greco della parola diavolo: diàbolos, propriamente ingannatore, accusatore, separatore, derivato di diaballein traducibile con lanciare attraverso, accusare, ingannare, seminare inimicizia, composto di dia (attraverso) e ballo (lancio). Potremmo, con buona ragione, affermare che la comparsa dell’uomo ha determinato il suo incontro con il kaos che non gli era accessibile e l’unica cosa che l’uomo ha saputo fare è stato di tentare di negare ciò che, non potendo comprendere, lo spaventava (sarebbe utile e interessante una ulteriore sottolineatura del verbo com – prendere ma rimandiamo a una diversa occasione). Ha così cercato di dividerlo, di frantumarlo in minime parti in modo da renderle progressivamente riducibili alle sue possibilità gnoseologiche. Ho sintetizzato in tre righe un viaggio durato millenni, anzi, potremmo affermare che si tratta di quel percorso che, dal grande botto originario, ha portato ad oggi; arrotondando siamo intorno ai quattordici miliardi di anni, ma mi limito ad analizzare l’età dell’uomo, il tempo intercorso dalla sua comparsa fino ad ora, due o trecento mila anni, un istante al confronto dell’età dell’universo.
Tutto cominciò con un suono, immaginiamo un HU, pronunciato da un primate che aveva sollevato da terra una pietra. Non che la cosa non fosse già successa prima e non si sarebbe ripetuta successivamente, senza però generare la stessa rivoluzione, infatti quella volta, e fu la prima, l’arché appunto, il primate si sorprese ad interrogarsi su chi mai avesse emesso quel suono che sembrava riferirsi proprio a quella “cosa” che aveva in mano. Già, perché il suo “chiedere a se stesso” immediatamente generò i concetti di “soggetto che si interroga”, “suono che rappresenta una cosa”, “nome ed esistenza delle cose” e così potrei proseguire per molte pagine, basti all’intelligente lettore constatare che in quell’istante la zampa del primate, che prima nemmeno poteva essere tale, si era trasformata nella mano di un uomo. È evidente che la mia descrizione di un processo complicatissimo che ha richiesto così tanto tempo, tradotta in una allegoria di poche righe, richieda una disponibile e acuta collaborazione da parte di chi legge. Ancora una volta provocatoriamente potremmo affermare che l’Essere, l’assoluto, la perfezione per antonomasia, aveva incontrato la sua antitesi, diabolos, colui che divide. Il povero primate non poteva saperlo, ma aveva da poco consumato il “peccato originale” condannandosi all’esilio dal paradiso nel quale era inconsapevolmente vissuto fino a quel momento. Resta da stabilire la responsabilità di quell’atto originario: fu volontà dell’essere? In quel caso fu l’Essere stesso a determinare la propria antitesi e a perdere la propria unità e unicità con tutti gli attributi relativi. Intervenne una volontà diversa? Quella, per esempio del diabolos? Ciò confuterebbe le peculiarità della singolarità dell’Essere in quanto esistente contemporaneamente alla propria antitesi. Può la responsabilità, la scelta, l’atto voluto e cosciente essere attribuito al primate? In quel caso il primate si sarebbe già saputo uomo, e mi fermo a quest’ultima nota
Una questione con le corna, almeno così la definirebbe il mio caro amico Federico, al secolo Nietzsche, sta di fatto che da quel momento la ragione e la sua diretta emanazione, la parola, in sintesi il logos, assunse un ruolo centrale, espressione della mente dell’uomo che, oramai allontanato dall’Eden che si vide trasformato in un mito, pretese di ricondurre l’assoluto alla sua pensabilità. Per ora mi accontenterò di una caustica chiusa che medio dall’amico Gershom Freeman: “Non sarà certo per caso che la mente abbia questo nome, infatti nulla mente più della mente”
di Ferruccio Masci