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Il rito di passaggio di Ferruccio Masci

È necessario che qualcosa muoia affinché altro possa nascere al suo posto … se non lasci morire un amore passato non avrai modo di concedere spazio ad una nuova  emozione … deve pur morire la bambina affinché possa nascere la donna” è la saggia osservazione che esprimeva Gershom Freeman in una conversazione a tre: lui, io ed una amica comune disperata per la conclusione di un recente amore. La frase così estrapolata può sembrare eccessivamente cinica, ma si collocava all’interno di un più ampio ragionamento intorno alla questione della scomparsa dei riti di passaggio nella nostra società e alla conseguente incapacità di gestire situazioni traumatiche che il rito dovrebbe esorcizzare attraverso un percorso catartico che renda più forte l’individuo alla luce delle garanzie che il modello culturale in cui cresce gli offre ritualizzando il dolore. Un tema che, nel corso della conversazione, si è poi incentrato sul ruolo della morte e della stretta relazione dialettica della capacità di prepararsi alla morte divenendo abili alla vita, insomma, questioni derimenti per ogni qualsiasi seria riflessione antropologica, ma andiamo per ordine.

Già nel 1788 il teologo svizzero A. C. De Chavannes si occupava dei fondamenti dell’antropologia come scienza dell’uomo, significativamente Kant scriveva, nello stesso anno, il saggio “L’antropologia dal punto di vista pragmatico”. È utile chiedersi: in che cosa consiste un rito di passaggio? Per comodità possiamo risalire a un classico della letteratura antropologica del primo 900 di Arnold Van Gennep che lo definisce come una cerimonia finalizzata a determinare la transizione tra due diverse condizioni sociali all’interno di un sistema, definita in base a una azione ripetitiva carica di valori simbolici autoreferenziali del sistema stesso. Un mezzo, in sintesi, per assicurare la compattezza della struttura socio sistemica e per confermare ogni componente a patto che conservi i riferimenti con l’ente garante. Si possono riconoscere, in quest’ottica antropologica, le radici del pensiero hegeliano nel quale il rapporto di reciprocità tra il componente e la struttura garantiscono tanto il sistema quanto il singolo così che entrambi si confermino l’un l’altro: io singolo e vulnerabile individuo convalido le tue leggi adeguandomi a esse in cambio della tua rassicurazione circa la mia identità e il senso del mio stesso agire. Una sorta di tautologia sistemica autoreferenziale. I grandi sistemi di potere protagonisti della storia si sono costantemente organizzati secondo un modello ritualizzato all’interno del quale l’elemento iniziatico e di passaggio ha sempre rivestito un ruolo centrale, basti pensare ai riti religiosi, il battesimo e la cresima, per esempio. È illuminante la  sintesi suggerita da Malinowski il quale sostiene che il rito di passaggio riveste la funzione di “ricostruire l’integrità del gruppo”.

Moderni studi antropologici hanno individuato riti di passaggio e iniziatici sopravvissuti pressoché invariati all’interno di gruppi etnici che hanno conservato le proprie tradizioni rimanendo particolarmente esclusi dal cosiddetto “progresso”. Alcuni sono anche piuttosto violenti, è il caso della Paraponera clavata tra i Sateré Mawé dell’Amazzonia. Altri, come il Naghol della tribù Sa hanno ispirato, probabilmente, il bungee jumping. In Australia il rito di passaggio dell’adolescente al ruolo di maschio adulto si risolve in una feroce e dolorosa circoncisione pubblica. Diviene abbastanza logico che il concetto di rito di passaggio si connoti, nella fantasia collettiva, come un momento molto doloroso nel quale il giovane deve dimostrare alla comunità il proprio coraggio e la stoica sopportazione del dolore fisico. Ritengo però sia più interessante riflettere sulla struttura tripartita individuata in ogni rituale dalla ricerca antropologica: una prima fase tesa ad isolare il soggetto dal contesto consueto e noto, una seconda nella quale l’attore del rito viene a trovarsi in uno stato di sospensione, una sorta di terra di nessuno che va attraversata in inevitabile e necessaria solitudine così da maturare finalmente il diritto all’accesso alla terza fase: la nuova condizione di iniziato. Nel mondo occidentale tali momenti vanno via via scomparendo o, come nel caso delle tre emme (Maturità, Matrimonio, Militare), vengono privati di rilevanza rituale. L’esame di Maturità, ora esame di stato, scelta peraltro fondatamente motivata dal fatto che la maturità è invalutabile specie per mezzo di verifiche scolastiche. Il Matrimonio, svincolato dalla sua arcaica funzione di sistema maschilista e di controllo, non ha ancora assunto una ragion d’essere molto al di là dell’abitudine e del piacere formale del rito. Il servizio Militare è stato abolito, posso confermare per esperienza diretta che spesso era solo un periodo di noia, masturbazioni e sigarette, in qualche modo, però, allontanava il giovane dal nido protettivo e ingombrante della famiglia inducendolo a fare i conti con se stesso

Ci sono poi riti di passaggio di natura biologica: l’arrivo del ciclo mestruale, la prima polluzione notturna, la comparsa della barba, significativamente celebrati come tappe positive, ma a questi seguono: il diradarsi dei capelli, le rughe sul viso, il logoramento inevitabile del corpo, vissuti come tragedie da nascondere e procrastinare quanto più possibile. Le civiltà del rito riconoscevano all’anziano la sua centralità come memoria, esperienza e, presumibilmente, saggezza, i parametri attuali ne sottolineano l’inadeguatezza performante, l’inefficacia produttiva, il decadimento estetico. Ne consegue il tentativo di un infinito prolungamento della giovinezza e la nascita della “famiglia allungata”. Con famiglia allungata intendo quella di origine che si dilata a dismisura negli anni fino all’avanzata età adulta dei figli, quella nella quale negoziare gli spazi di autonomia che non potrà mai essere reale. È così che abbiamo ultra trentenni che si misurano con nuovi falsi riti di passaggio come il train surfing o il bangee jamping e genitori che si gloriano di essere amici e compagne dei figli e delle figlie che, di conseguenza, li trattano come tali.

Mi sembra evidente che i rituali del passato sono, in quanto tali, obsoleti per l’uomo di oggi mentre i rituali di sistema sono funzionali soprattutto al sistema stesso e all’uomo omologato; non ci resta che imparare a vivere serenamente gli imprescindibili rituali biologici riscoprendo il tempo come categoria naturale dell’esser-ci, per dirla con Heidegger, ma ciò che mi preme sottolineare è che non è possibile abdicare al rito di passaggio tout court. Già il presente si slega dalla realtà trasferendola nel mondo virtuale e le nuove generazioni non riescono né a gestire il quotidiano né a crearne uno gestibile, se non riscopriamo l’atto rituale anche personale, privato, perfino assolutamente individuale per decidere di essere diventati adulti, se ci lasciamo imprigionare in un mondo fittizio di perenne adolescenza non stiamo forse abdicando al diritto di vivere profondamente la nostra vita? Non ci stiamo definitivamente consegnando ad un grande fratello mosso dall’unico intento della propria sopravvivenza? Non ci stiamo precludendo la possibilità di essere protagonisti consapevoli e responsabili della nostra esistenza?

a cura di Ferruccio Masci

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