Il circonfuso di luce
“Dov’era andato il nano? E la porta maestra? E il ragno? E tutto il sussurrare? Stavo dunque sognando? Mi ero destato? A un tratto mi trovai fra selvagge rupi, solo, deserto, nel più deserto chiaro di luna. Ma qui giaceva un uomo”. Siamo all’epilogo del viaggio all’interno del mito dell’eterno ritorno dell’uguale, epilogo che, in verità, vuole essere un principio “poiché, a dire il vero, per simili cose su questa terra il tempo non esiste”. L’ordine convenzionale è scardinato, il tempo si conclude in se stesso negandosi e affermandosi all’istante, il bene e il male sono ormai svuotati di senso, come comprendere se ciò che vedo è sogno o se finalmente mi sono destato? Zarathustra si concede alla verità assoluta di una visione che sconvolge anche la sua capacità di accettare il mistero: “quel che allora vidi non avevo mai visto l’uguale”.
Lo spettacolo che si mostra al filosofo è quello di un giovane pastore che, forse addormentatosi sul prato, non si è accorto che “un pesante serpente nero” gli si era infilato in gola dove si era aggrappato con i denti. Il giovane stava soffocando, si contorceva in preda al panico, il volto sconvolto, e non sapeva come salvarsi da “tanto orrore e tanto schifo”. Immediatamente Zarathustra cercò di aiutarlo afferrando il rettile e tentando di strapparlo dalla sua bocca, ma non riusciva, il viscido animale non cedeva alla sua presa. Fu allora che sentì una voce che gridava dentro di lui, una voce che fu udita anche dal pastore, una voce potente che urlava “Mordi! Mordi! Staccagli la testa! Mordi”, questo diceva la voce interiore, urlava “il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia compassione, tutto il mio bene e il mio male”. A questo punto della sua narrazione il filosofo si arresta e si rivolge ai suoi lettori: “Voi audaci intorno a me ! Voi che cercate e sperimentate, e chi di voi si imbarcò con accorte vele su mari inesplorati! Voi amanti degli enigmi! Scioglietemi dunque l’enigma che io vidi, spiegatemi dunque la visione del più solitario fra tutti!”. Raccogliamo l’esortazione nietzscheana e proviamo a “sciogliere l’enigma”: il pastore è la persona comune, l’uomo al cominciare del suo cammino, ma è anche il filosofo; come sappiamo, infatti, i primi filosofi erano pastori, persone che avevano e si concedevano tempo per pensare, per cercare un senso, per mettere ordine nel mistero. Credo che il messaggio della visione si nasconda proprio nel principio del viaggio del pensiero, un inizio che si fonda sul disperato bisogno di mettere ordine nel caos! La questione si fa impervia e non voglio aggrovigliarla eccessivamente, ma non è possibile nemmeno risolverla gordianamente. Proviamo: se il tempo, e ci limitiamo ad una nota inevitabilmente sintetica, non è nelle cose ma nel pensiero dell’uomo che ricorda e ipotizza generando passato e futuro ed il loro incontro in un improbabile presente, la conseguente fondativa sistematizzazione dell’essere è una delle pretese più deleterie della metafisica. Se, come sostiene genialmente Rovelli, la nostra vista è offuscata per consentirci di non vedere ciò che ci destabilizzerebbe, anche lo spazio diviene un’ipotesi. Se la realtà non ha né progetto né progettista, il caos è l’unica verità, negarlo è un autoinganno utile alla sopravvivenza dei “superflui” ma avvilente per chi ha il coraggio di “avere un caos dentro di sé” tanto da poter divenire creatore di “una stella danzante”.
Mi rendo conto del peso di certe affermazioni e di quanto possano apparire criptiche, provo ad esplicitarle: il mito dell’eterno ritorno dell’uguale svuota di significato quel pensiero che, divenuto “globale” ed imperante, ha edificato il sistema culturale attuale, in tutte le sue variabili politiche, religiose, economiche … facce apparentemente diverse di un’unica ragione ingannevole. L’uomo comune ha bisogno di certezze, che siano fondate o meno poco importa, ciò che conta è che funzionino. Ma il verbo funzionare prevede un progetto, un progettista ed un uso. Mi spiego: se provo ad usare il mio rasoio elettrico come cellulare non funziona, ma ecco che, ricondotto al suo fine, può radermi correttamente. Questo può apparire tanto lapalissiano quanto pleonastico ma, se al posto del rasoio ci metto il pensiero, ecco che il tutto assume una luce profondamente diversa. Nel caso del rasoio è certo che prima sia nata la necessità di radersi, in seguito ad essa è sorta l’idea in un progettista, quindi la realizzazione del mezzo e l’inevitabile necessità dell’impiego corretto dello stesso. Ma chi può affermare che solo un certo modo di pensare sia quello che coglie la verità della vita? E se, al contrario, non esistesse una verità ma solo la prospettiva generata dalla mia volontà? Tutte le categorie convenzionali sarebbero scardinate, si tornerebbe al caos! È un po’ quello che è accaduto al mondo dopo la comprensione che il pianeta non è piatto, non è fermo, non esiste un sopra e un sotto, alla vigilia del Rinascimento, l’epoca nella quale il pensiero dell’uomo si solleva più su per … rimettere in ordine il caos improvviso che gli si è palesato. Ed oggi l’esempio è valido anche per le nuove fisiche che si lacerano in questo sconvolgente problema filosofico: l’ordine che voglio trovare è preesistente o solo una rete gettata sul magma dell’esistenza per tentare di afferrarla e comprenderla? Può aiutarci un’allegoria: se l’essere è il perenne divenire a-progettuale rappresentato dall’oceano, ecco che il pescatore (scienziato, teologo, matematico etc) tenta di comprenderlo cacciandone gli abitanti con la sua rete. Ovvio che possa cogliere gli ospiti e mai l’oceano stesso, inoltre le maglie delle varie reti sono diverse a seconda della categoria del pescatore. Il pescato è osservato attraverso queste maglie così diviene ordinato e comprensibile a seconda delle forme delle maglie stesse, certo maglie diverse ma unite dal medesimo fine e dallo stesso strumento fondativo è per questo che i linguaggi diversi divengono traducibili.
Capisco bene che il problema è enorme, ma dobbiamo concludere l’analisi del testo e, per ora, ne abbandoniamo lo sviluppo in questa fase embrionale. Perché il serpente non cede alla presa di Zarathustra? Perché è radicato nel pastore? Perché è parte di lui, è l’inganno che abita ogni essere umano e nessuno ti può liberare dal suo morso, devi farlo tu. Nel paragrafo precedente, in realtà, mi sono provato ad estrarre il serpente, non credo di aver avuto miglior fortuna di Zarathustra. “Ma il pastore morse, come il mio grido gli consigliava; morse con buon morso! E sputò lontano la testa del serpente: e balzò in piedi”. Il presunto pessimismo nietzscheano svapora davanti al sole di questa affermazione; il filosofo crede che l’uomo avrà il coraggio di sputare lontano l’inganno metafisico, la vigliacca rinuncia all’assunzione di responsabilità sulla propria vita, e saprà balzare in piedi. Credo che l’epilogo del passo dello Zarathustra, a questo punto, possa essere riportato senza più richiedere ulteriori interpretazioni.
“Non più pastore, non più uomo, un trasfigurato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai ancora sulla terra aveva riso un uomo come rise quello! O miei fratelli, udii un ridere che non era il ridere di un uomo, e adesso mi divora una sete, una nostalgia che mai si placa. La nostalgia di quel riso mi divora: oh, come sopporto di vivere ancora! Ma come sopporterei di morire ora!” Credo non sia possibile che desiderare la condivisione di tanta bellezza una volta colta, sono convinto che ogni uomo visitato e capace alla gioia ed alla luce di simili pensieri desideri condividerle con gli altri: è il fondamento di ogni creazione artistica!
di Ferruccio Masci