Della visione e dell’enigma
“[…] v’erano molte cose strane e pericolose da ascoltare su quella nave che veniva da lontano e voleva andare ancora lontano. Ma Zarathustra era amico di tutti coloro che compiono lunghi viaggi e non sanno vivere senza pericolo. E guarda! Alla fine, ascoltando, gli si sciolse anche la lingua, e il ghiaccio del suo cuore si spezzò”. Si tratta del terzo libro del noto “Così parlò Zarathustra”, in particolare della parte che Nietzsche intitola “Della visione e dell’enigma”, l’inizio di una delle narrazioni evocativo-allegoriche più suggestive e ricche di profondità inquietanti della letteratura filosofica. Il protagonista eponimo del testo, Zarathustra appunto, si è imbarcato su di una nave, quella sulla quale, consapevolmente o meno, siamo ancora noi adesso, e per due giorni è rimasto “freddo e sordo” tra gli uomini che lo osservavano senza avere la sua disponibilità. Quanto dolore, quanta solitudine lo hanno accompagnato per troppo tempo. Chi non comprende la sua sofferenza, a chi non è mai capitato nella vita? Ma la sua condizione era terribile: un gigante innamorato degli uomini che lo temono, lo disprezzano o lo idolatrano, ma che, in un caso o nell’altro, non hanno ali per condividerne il volo, non hanno cuore per accogliere tanto amore. Peter Gast, suo “amico” ne è l’esempio più palese: l’amore possente e la considerazione di Nietzsche che lo giudicava un grande musicista, fu un peso eccessivo per le sue povere forze, ed ecco il tradimento. Essere amati da un grande è spesso un peso insopportabile per i mediocri, una sorta di rivelazione della propria inettitudine, e l’uomo piccino non sa fare altro che divenire cattivo e scaricare colpe e risentimento su chi voleva solo essere un dono. Ma, ancora una volta, affascinato dal mistero dell’uomo, dopo due lunghi giorni di silenzio, Zarathustra riprende a parlare.
“A voi, audaci nel cercare e nel tentare e a chi mai s’imbarcò con accorte vele su terribili mari. A voi, ebbri di enigmi, amanti d’ogni luce crepuscolare, la cui anima è attratta da flauti verso ogni voragine dell’io: e poiché voi non volete seguire con mano codarda un filo; e dove potete indovinare odiate dischiudere, a voi soli racconto l’enigma che vidi, la visione del più solitario”. Si rivolge ai molti o ai pochissimi che possiedono una delle qualità imprescindibili per il vero filosofo, cioè per qualsiasi essere umano che voglia vivere consapevolmente “il proprio bene ed il proprio male”: il coraggio. Con la precisa consapevolezza che essere coraggiosi non significa non avere paura, ma saperla vincere. Vuole comunicare con questi esseri meravigliosi che abitano ancora oggi le strade delle nostre città, i sentieri delle nostre campagne, questi esseri eccezionali e comuni che avevano ed hanno solo bisogno di essere esortati a concedersi all’attrazione che provano ancora pudichi “verso ogni voragine dell’io”, questi iperborei in attesa che, comunque, non si limitano a “seguire con mano codarda un filo”, che accettano il rischio di uscire dalla grammatica (“non ci libereremo mai di dio se non ci libereremo della grammatica”), da quei binari convenzionali che non potrebbero che condurli là dove hanno destinazione, una scelta compiuta, più o meno consapevolmente, dai costruttori della ferrovia, non certo da chi vi si trova a viaggiare. Ma il viandante può scartare di lato, imboccare percorsi diversi, consentirsi “uno sguardo altro”. È necessario dotarsi di mezzi diversi, se non si seguono i binari, per quelli si è attrezzati, un lungo percorso di abitudini e acquisizioni non deliberate prepara al viaggio prestabilito, “indovinare e non dischiudere” può creare dubbi, incertezze, paure; insomma, richiede coraggio. Ottenuta l’adeguata platea, finalmente Zarathustra può raccontare la propria visione, una visione che introduce all’enigma, che ti indica l’abisso ma, guardare dentro di noi non è sempre guardare abissi?
La narrazione del “filosofo in cammino” comincia con un’ascesa, verso l’alto, “a dispetto dello spirito, che lo attirava verso il basso” ma gravato di un faticoso e sgradevole peso aggrappato alle sue spalle, un essere ambiguo, “mezzo nano, mezzo talpa; storpio e storpiante; piombo nel mio orecchio”. Lo spirito è il peso, quello dal quale liberarsi per poter accedere al nostro luogo di elezione, ma lo spirito che ci grava sui pensieri è il figlio perverso di una cultura vigliacca, è il retaggio di secoli di censure, di falsi moralismi, di bigottume del pensiero, ti sussurra il tuo fallimento se solo proverai ad infrangere le leggi, quelle che ti sono state insegnate da sempre, che hanno edificato la sinistra coscienza che ti perseguita con ingannevoli sensi di colpa. Ha inizio ciò che per Nietzsche è la “transvalutazione di tutti i valori”. Lo spirito di gravità sussurra malevolo minando il tuo ardore: “Scagliasti te stesso tanto in alto, ma ogni pietra scagliata deve ricadere!”. Sa bene come muoversi e su quali paure fare leva, ti minaccia, instilla dubbi: “Condannato a te stesso e all’autolapidazione: o Zarathustra scagliasti, sì, lontano la pietra, ma essa ricadrà su di te”. Se non hai mai vissuto nella vita un momento paragonabile a questo … allora non hai mai vissuto! Ma sempre si è indotti a guardarsi attorno, tutti hanno paura, tutti preferiscono le tenebre alla luce, tutti accettano di rinunciare, per poi magari oltraggiare chi ha osato fare il contrario, addirittura ridere delle eventuali ferite da lapidazione che il temerario ha subito, così la moltitudine sconfitta diviene “la maggioranza”, la comunità abitata dal risentimento e, forte della propria consistenza numerica, eccola pronta alla celebrazione delle regole, quelle che, ingannevoli e subdole, trasformano “la resa in buon senso”. Ma Zarathustra conosce il coraggio e, nell’infinita e terribile solitudine, che è quella condivisa, si rivolge ardito verso il nano: “Nano! Tu o io”
“Alt, nano! – dissi – O io! O tu! Ma io sono il più forte dei due: tu non conosci il mio abissale pensiero! Quello non potresti sopportarlo”. Si apre qui, con l’assunzione di potere da parte del filosofo in cammino, la parte più inquietante e caratterizzante del mito dell’eterno ritorno, una sorta di chiave di volta del pensiero nietzscheano. Lo spirito di gravità, il minaccioso e tracotante nano-talpa è sorpreso dalla forza del filosofo, scende dalla sua spalla e si siede davanti a lui, in silenzio infine, in attesa di conoscere l’abissale pensiero che potrebbe annichilirlo. Non è il caso, per ora, di entrare nel cuore del discorso di Zarathustra per visitare il quale rimando ad un prossimo incontro, ma possiamo sin d’ora sottolineare che il racconto nietzscheano vuole essere un esempio ed una esortazione. Chiunque ha avuto paura, non molti se ne sono resi conto. Il quotidiano è quello che l’amico Pascal definiva divertissement, una sottile e surrettizia induzione alla superficialità, a non porsi domande, a seguire il corso incompreso della cosiddetta vita. La paura, comunque, in un anfratto del nostro abisso, sappiamo che ha fatto visita a tutti, ha bussato alla porta della nostra coscienza. Il coraggioso si è alzato dalla sua comoda poltrona, è andato all’uscio, ha aperto e non ha trovato nessuno! Il vigliacco o l’inconsapevole ora stanno sorbendo un tè in sua compagnia nel proprio salotto, mentre la vita si consuma là fuori.
di Ferruccio Masci